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“L’obiettivo è impedire il disastro annunciato. L’automotive è sull’orlo del precipizio, servono strumenti di prevenzione e di accompagnamento in questa difficile fase di transizione”. L’analisi di Simone Marinelli, coordinatore nazionale automotive per la Fiom Cgil nazionale, è molto netta: “Qui rischiamo di perdere un settore fondamentale dell’industria manifatturiera italiana, è bene che tutti lo capiscano”.
La vicenda della Sevel di Atessa (Chieti) è paradigmatica della necessità di agire subito, quando ancora ci sono margini per interventi efficaci.
L’allarme per lo stabilimento del gruppo Stellantis lo abbiamo lanciato da tempo, ossia da quando abbiamo capito che sarebbe nato in Europa, precisamente a Gliwice, in Polonia, un impianto che avrebbe anch’esso prodotto veicoli commerciali leggeri. Di conseguenza, abbiamo subito dato voce alla preoccupazione per la tenuta produttiva della Sevel e del suo indotto.
Domanda secca: la Sevel rischia di chiudere?
No, questo no, e comunque faremo di tutto per impedirlo. Ma rischia un forte abbassamento della capacità produttiva, che già oggi fatica a rispondere pienamente alla domanda di mercato. Alla Sevel si fabbricano il furgone Ducato, il veicolo commerciale più venduto in Europa, e i furgoni di Peugeot e Citroen: se ne producono 300 mila all’anno, nelle diverse versioni. Ma da molto tempo ormai non si investe sull’ammodernamento degli impianti e, appunto, sulla capacità produttiva di Atessa.
Gli investimenti hanno preso invece la strada della Polonia, precisamente della Zona economica speciale (Zes) di Gliwice. Che sappiamo di questo stabilimento?
Poco o nulla. Stellantis non ci ha ancora detto formalmente cosa produrrà lì, e quindi come e quanto verrà di conseguenza erosa la produzione in Sevel. L’impianto dovrebbe partire nel febbraio prossimo, ma sono informazioni che abbiamo appreso non dall’azienda. L’unica cosa che sappiamo è che alcune aziende dell’indotto Sevel stanno già investendo a Gliwice, costruendo quegli stabilimenti che ‘serviranno’ la produzione locale.
In pratica, si sta clonando la Val di Sangro.
Esattamente, si fa un doppione. Approfittando sia dei vantaggi fiscali e degli incentivi all’insediamento di nuovi stabilimenti che offre la Zona economica speciale, sia della politica di attrazione degli investimenti stranieri, che è ovviamente del tutto legittima, attuata dal governo polacco.
La Polonia fa il suo, se così possiamo dire. L’Italia, allora, che dovrebbe fare?
Capire bene la questione, anzitutto. L’automotive è tra le industrie manifatturiere più importanti del nostro Paese: ci lavora un milione e mezzo di persone, non solo metalmeccanici. Noi siamo alle prese con una crisi strutturale dovuta alla mancanza di investimenti da parte dell’unico player presente in Italia, l’odierna Stellantis, in particolare per la scelta di Marchionne di non investire sull’elettrico. Scontiamo, dunque, un forte ritardo sulla transizione energetica.
A questa crisi strutturale si aggiungono anche difficoltà di carattere congiunturale…
Due in particolare: la crisi delle forniture, che sta comportando un aumento dei costi delle materie prime come alluminio e acciaio, e la crisi globale dei semiconduttori, dovuta alla pandemia. Riguardo i semiconduttori, occorre rilevare che in Italia abbiamo un solo produttore: la St Microelectronics. L’auto del futuro sarà sempre più tecnologica, di conseguenza crescerà la richiesta di questi materiali: occorre dunque prevedere in Italia investimenti pubblici e privati per aumentarne la produzione.
Cosa chiede la Fiom al governo?
Che il tavolo sull’automotive, riconvocato per mercoledì 13 ottobre, serva ad avviare un confronto serio con aziende e sindacati per individuare il piano industriale del settore: Francia, Germania e Spagna lo hanno già fatto, mentre in Italia ancora non abbiamo linee guida né prospettive. Da noi la logica imperante è stata quella dell’autoregolamentazione del mercato, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Cosa dovrebbe contenere il piano industriale?
Il tema è l’elettrificazione. Siamo convinti della necessità della sostenibilità ambientale, ma questa trasformazione va accompagnata da altrettanta sostenibilità sociale. Con l’elettrificazione rischiamo di perdere migliaia di posti di lavoro: è un processo costoso, richiede investimenti cospicui in nuove tecnologie, ricerca e sviluppo. E la nostra industria, in particolare la componentistica, è composta di medie aziende, che non hanno quindi le risorse che servirebbero.
Ma questa transizione verso elettrico e ibrido, precisamente cosa comporta?
L’auto elettrica necessita di minore componentistica: un motore elettrico ha circa un terzo di componenti in meno di un motore diesel. Di conseguenza, per fabbricare un motore elettrico servono meno ore di lavoro. Dobbiamo avere strumenti straordinari per affrontare questo passaggio, considerando che gli ammortizzatori sociali attuali non sono in grado di fronteggiare sia la crisi strutturale sia la crisi delle forniture, e inoltre hanno un impatto di forte riduzione del salario dei lavoratori.
Il passaggio all’elettrico, è facile immaginarlo, avrà anche un impatto sulla preparazione dei lavoratori.
Assolutamente sì. Serve un programma straordinario di formazione e riqualificazione, perché le professionalità stanno cambiando, e non solo nella produzione. Un esempio? La manutenzione delle auto. Il meccanico, oggi, è già un ‘meccatronico’, nel senso che ha la necessità di avere competenze informatiche e digitali, visto che ormai le automobili hanno sistemi di sensoristica e controllo gestiti da centraline elettroniche e da software.
Un’ultima domanda, che ci viene da alcuni recenti dati Istat. L’Istituto ha accertato che la forza lavoro dell’automotive in Italia è la più “anziana” d’Europa, con una media ormai vicina ai 50 anni. Come affrontare questo problema?
Dobbiamo avere strumenti sia per accompagnare al pensionamento i lavoratori, in particolare quelli che per tanto tempo hanno operato sulle linee di montaggio, sia per favorire ingresso di giovani. Una misura utile, che però deve essere prorogata visto che al momento è in scadenza, è il ‘contratto di espansione’, che sta dando buoni risultati. Ma, ovviamente, altri strumenti potranno e dovranno essere individuati attraverso il confronto al tavolo governativo.