L’inizio della mia odissea professionale risale a diversi mesi fa, quando ho preso la difficile decisione di lasciare un lavoro stabile e ben retribuito per seguire un’opportunità che prometteva di essere un trampolino di lancio per la mia carriera. Con grande entusiasmo, ho accettato il ruolo di marketing executive presso una prestigiosa multinazionale, convinto di aver fatto il passo giusto verso un futuro promettente. Ma il sogno si è rapidamente trasformato in un’opportunità vana.

I primi mesi nel nuovo ruolo sono stati stimolanti e impegnativi. Consapevole di dover colmare alcune lacune, ho dedicato interi weekend allo studio, convinto che il mio impegno sarebbe stato premiato. Tuttavia, a marzo, l’azienda ha annunciato una ristrutturazione che ha scosso le fondamenta del mio percorso professionale. Inopinatamente, mi sono trovato immerso in un ambiente di incertezza e caos. Ciò mi ha portato non solo ad una crisi totale nella mia quotidianità e nel mio lavoro, ma anche a tanta incertezza emotiva e interiore, come conseguenza del cambiamento.

La ristrutturazione aziendale: un colpo devastante

Non avevo mai affrontato una ristrutturazione aziendale prima d’ora, e l’incertezza ha iniziato a prendere il sopravvento. I giorni passavano e la turbolenza aumentava. Colleghi che venivano licenziati, manager che cambiavano ruolo e il mio lavoro, che inizialmente era chiaro e definito, si stava smaterializzando davanti ai miei occhi. Da progetti di marketing strategico, mi sono trovato a gestire compiti iper-quantitativi, finanziari e statistici, totalmente fuori dalla mia area di competenza. Con una laurea in discipline umanistiche, affrontare queste nuove sfide senza alcuna formazione specifica è stato quasi impossibile.

Nonostante i miei sforzi inutili per adattarmi al nuovo ruolo richiestomi (per il quale non avevo né esperienza né formazione), alla fine mi sono trovato costretto a rassegnare le dimissioni, consapevole che continuare in quella direzione avrebbe arrecato danno sia alla mia persona che all’azienda. Credo fermamente che il lavoro debba essere un luogo dove l’individuo si identifica, un concetto che i giapponesi chiamano Ikigai. Quando questo viene meno, è giusto farsi da parte.

Molte persone mi hanno detto che stavo sbagliando perché in Italia, si è portati a credere che il posto “d’oro” è per sempre, che nessuno te lo toglierà e che i soldi, compreranno tutte le tue frustrazioni e le tue infelicità, come se uno stipendio buono fosse la panacea per tutti i mali.

Forse per me è stato inizialmente così, ma era una situazione effimera, che arrivava a fine mese con la notifica della banca e che poi svaniva in un battito di ciglia. Quando ogni mattina mi alzavo per andare a lavoro, consapevole di non poter fare la differenza, di non crescere, di fare un lavoro su cui non avevo basi e dove non avrei potuto dimostrare le mie reali competenze per le quali mi ero formato.

L’inizio dell’odissea delle candidature

Ho preso questa decisione e me ne sono andato. Tra ripensamenti vari e i pareri di persone più adulte di me che a più riprese mi hanno detto “chi te lo fa fare”, ho rassegnato le mie dimissioni e lavorato i miei ultimi giorni. Mai mi sarei aspettato che quello che stavo per vivere, sarebbe stato così intenso e sconvolgente, per la mia persona e le mie emozioni. Quel cambiamento si è abbattuto su di me come una forza tellurica.

È iniziata una vera odissea, per non dire travaglio, alla ricerca di un’opportunità lavorativa. Ho iniziato a inviare candidature con la speranza di trovare un nuovo impiego nel più breve tempo possibile, illudendomi che con quattro anni di esperienza lavorativa in due multinazionali, note di merito, borse di studio, master e lauree in prestigiose universitarie, tutto sarebbe stato facile e risolvibile in poco tempo.

Ho attinto a ogni risorsa disponibile: amici, familiari, ex colleghi, ex manager, conoscenti. Nonostante questo sforzo colossale, i risultati sono stati desolanti. Le candidature sembravano scomparire in un vuoto senza fondo, molte delle quali risultano ancora “in considerazione” mesi dopo l’invio.

Alcune aziende mi hanno offerto contratti con stipendi ridicoli, che avrebbero reso difficile persino sbarcare il lunario. Altre mi hanno contattato solo perché conoscevo qualcuno all’interno, come se la competenza fosse diventata secondaria rispetto alle connessioni personali, l’aggancio (come ci piace dirlo all’italiana) o il “calcio nel sedere” per essere più diretti.

Un sistema di reclutamento inefficiente e demotivante

Si sente spesso dire che i giovani italiani sono pigri e svogliati, ma la verità è un’altra. I giovani italiani hanno fame, voglia di lavorare e di dimostrare il loro valore, ma non ne hanno l’opportunità. Dopo aver inviato oltre 600 candidature e ricevuto solo il 3% di risposte, mi chiedo quale sia la reale situazione del nostro sistema di reclutamento.

Una persona accende il telegiornale e millantano rose e fiori. “È boom di assunzioni”, recita qualche notiziario. E poi ancora “mai come oggi l’economia riparte”, ma la situazione è ben diversa da quella che vogliono farci credere. La gente dovrebbe vivere sulla propria pelle certe cose: guardare con i propri occhi il tempo i sacrifici spesi a compilare decine di campi sui portali delle super aziende in cerca di un lavoro, piuttosto che sparare numeri in orbita con percentuali, decimali e doppi zeri. Le persone non sono numeri e ognuna porta con sè situazioni e motivazioni diverse: fate parlare le persone non la statistica.

Non si tratta di assenza di competenze. Tra master, lauree, borse di studio, progetti e corsi pratici penso di avere un bagaglio formativo solido, frutto di anni di sacrifici, sudate e soldi investiti in formazione di alto livello.

Non si tratta nemmeno di un mismatch tra le posizioni e le competenze, poiché mi sono sempre candidato a ruoli in linea con la mia esperienza: onde evitare di essere accusato di non volermi accontentare o di mirare alla luna, come spesso accade in Italia dove i giovani, molto spesso, sono tacciati di presunzione e di poca voglia nel volersi sporcare le mani.

Non è nemmeno una questione di pretese troppo alte: chi ha davvero voglia di lavorare è disposto ad accettare qualsiasi cosa, purché dignitosa. Ho fatti colloqui a 45 chilometri di distanza da dove abito facendo il GRA sotto al diluvio in scooter, altri colloqui in aziende mai sentite in giro per l’Italia per darmi un’opportunità e abbassare di molto le mie pretese. Ho provato di tutto, ma tutto non è bastato.

Colloqui mal gestiti e opportunità fantasma

I colloqui, quando finalmente riesci ad arrivarci, sono spesso gestiti male. Ho partecipato a selezioni in cui ho dovuto preparare business case dettagliati, raccogliere dati, numeri e slides, solo per vedere le aziende sparire nel nulla dopo settimane di lavoro, come se il rispetto per la persona e il tempo, non contassero niente e fossero merce dovuta e scontata.

In altri casi, mi è stato detto che ero troppo qualificato, come se la formazione e l’aggiornamento fossero un minus anziché un plus. Ci hanno venduto per anni l’idea che università e master fossero la cartina al tornasole di una carriera sicura; invece, in certe occasioni, avere studiato troppo ed essere troppo qualificati è un male, perché costi troppo all’azienda o perché potresti “scavalcare” qualcuno in azienda e metterlo in cattiva luce. Come sempre la meritocrazia è un concetto sconosciuto a molti.

Ci sono casi, che mi sono capitati, in cui le job description spesso non corrispondessero alla realtà del lavoro offerto. Mi è capitato di recente un’azienda che mi ha chiamato per un colloquio per una data mansione che mi è stata comunicata al telefono. Il risultato? Il giorno dopo quella mansione si e tramutata in altre due-tre mansioni accorpate, come se a una persona debba essere un tuttologo ed essere pronta a fare tutto e a farlo anche bene. Fin quando le aziende tenteranno in ogni modo di prendere una persona e fargli fare tre o quattro lavori insieme, la situazione non cambierà mai. Sfido chiunque, a parità di salario (che già è basso) a sobbarcarsi di altri tre o quattro lavori insieme, prassi che ormai vedo in molti annunci di lavoro online.

E poi ci sono le aziende che propongono stipendi inaccettabili, senza alcuna possibilità di crescita. Che senso ha proporre a una persona qualificata uno stipendio ben al di sotto di qualsiasi ragionevole considerazione? Conti alla mano, con uno stipendio di mille euro al mese non ci si arriva nemmeno a fare la spesa e a pagare un affitto. Non è scienza occulta, sono numeri e non opinabili. È la pura verità.

Mi chiedo ancora oggi se sia mai possibile che noi giovani dobbiamo subire tutto questo, senza avere la minima opportunità di lottare con il sistema, che ci schiaccia con le sue logiche meschine e diaboliche, costringendoci ad andarcene (nella peggiore delle ipotesi) oppure a restare, ma a vessare in queste condizioni che ledono la nostra persona, ci sviliscono, ci ammorbano e ci fanno sentire insignificanti. Ogni tanto mi sono guardato indietro e mi son detto: “Ma chi me l’ha fatto fare a studiare?”. A volte questo pensiero mi assale così tante volte che penso di aver perso tempo.

La necessità di un cambiamento

È ora di dire basta. Non chiediamo molto: solo trasparenza, professionalità e chiarezza. Le risposte automatiche, le descrizioni inesatte, i compensi irrisori e i benefit ridicoli sono inaccettabili. I curricula dei candidati non posso essere processati come francobolli sotto a un sistema automatico (il tanto decantato Ats system) da “sei dentro o sei fuori”: siamo esseri umani, non oggetti immateriali e privi di senso. Ogni persona dovrebbe avere la sua chance di dimostrare chi è, esprimersi e mettere in mostra il proprio valore.

In Italia non manca il lavoro, ma manca la valorizzazione di chi ha veramente voglia di lavorare. Le persone motivate dovrebbero essere riconosciute e non trattate come semplici numeri solo per riempire il notiziario: non è giusto, non ce lo meritiamo.

Trovare lavoro è diventato un tiro di dadi. Tutto questo porta a essere relegati alla fortuna e alle conoscenze, rendendo vani anni di studio e sacrifici. Se sei fortunato vinci, se sei sfortunato sei abbandonato al caso e al caos.

Qualcuno una volta ha detto: datemi una leva e vi solleverò il mondo. Quello che voglio dire a chi sta lassù è: dateci un’opportunità e possiamo davvero cambiare il Paese, altrimenti ce ne andremo a fare la nostra fortuna altrove. Non lamentatevi poi, noi ve l’avevamo detto. Che non si dica mai più che siamo il Paese degli inoperosi e degli ignavi.

Con affetto, un cittadino italiano “stanco”.

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