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Li chiamano contratti lampo. Sono rapporti di lavoro a tempo determinato che durano poco, anzi pochissimo, al massimo 30 giorni. Rappresentano il 37 per cento delle nuove posizioni attivate da aprile a giugno di quest’anno: la quota dei contratti di un solo giorno è salita al 13,3 per cento (rispetto al 9,2 per cento del trimestre precedente), quelli fino a una settimana ha toccato il 23,7 per cento, il 3,9 per cento in più.
Lo dicono i dati di ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal, che confermano un trend in aumento: anche se il mercato del lavoro ha fatto registrare un buon andamento nel secondo trimestre, c’è un ricorso sempre maggiore al precariato. Anzi, al super precariato. E che le aziende se assumono, lo fanno solo per periodi strettamente necessari. La Cgil continua a battere su questo tasto dolente: nel decalogo Ascoltate il lavoro, che riassume le questioni ineludibili cui la politica è chiamata a dare una risposta, subito dopo la tutela del potere d’acquisto di redditi e pensioni e la riforma del fisco, c’è lo stop alla precarietà.
Tra le richieste al nuovo governo, superare il Jobs Act e le norme che hanno precarizzato il lavoro, introducendo un contratto unico di ingresso a contenuto formativo ed estendendo le tutele agli autonomi, definire un nuovo Statuto dei diritti per tutti, un piano per la piena e buona occupazione in particolare per giovani e donne, condizionare i finanziamenti e le agevolazioni pubbliche collegandoli alla stabilità dell’occupazione e contrastare le delocalizzazioni.
“È un dato preoccupante perché questa dei contratti lampo è una dinamica storicizzata nel nostro mercato del lavoro e perché si registra un ulteriore aumento nel secondo trimestre rispetto al primo - spiega la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti -. Crescono molto gli avviamenti della durata di un solo giorno, legati certamente alla stagionalità. Il fatto è che erano calati negli ultimi due anni, dopo i picchi toccati nel 2018 e nel 2019, quando la quota dei contratti della durata di massimo un mese avevano raggiunto livelli record, circa il 40 per cento delle nuove attivazioni”.
Questo dimostra quanto sia bassa la qualità del lavoro, soprattutto del nuovo lavoro. Perché avere un contratto di un giorno, una settimana, uno o due mesi al massimo, vuol dire vivere quotidianamente con una spada di Damocle in testa, non sapere che cosa accadrà domani, se si sarà in grado di pagare le bollette, l’affitto, o fare la spesa per la cena. “Nonostante le risorse che arrivano dal Pnrr e la ripresa del Pil a cui assistiamo, non abbiamo la capacità di rompere uno schema sulla qualità del lavoro - prosegue Scacchetti -. Se a crescere sono soprattutto i contratti di un giorno, più 4 per cento da un trimestre all’altro, che tipo di occupazione stiamo creando?”.
Senza contare che le attivazioni lampo possono nascondere un’evasione contributiva e contrattuale: se l’azienda regolarizza il lavoratore per poche ore o qualche giorno si mette al riparo da possibili controlli, anche se il rapporto dura di più. “Succede con i part-time, per cui le ore effettive sono maggiori rispetto a quelle registrate – aggiunge la segretaria -. È anche vero che i contratti di durata breve e brevissima sono legati a settori che hanno problemi a fare programmazione, che hanno picchi di intensità difficilmente gestibili con l’ordinarietà, per rispondere alle esigenze produttive. Ma la numerosità dei tempi determinati è indice di un sistema che non scommette sulla riconoscibilità del lavoro come diritto in termini di stabilità”.
Se si vanno ad analizzare le tipologie di contratto, si scopre che sono aumentate quelle che erano quasi scomparse durante la pandemia: il lavoro in somministrazione, che ha toccato quota 485mila unità (più 50mila, pari a un incremento dell’11,5 per cento rispetto al secondo trimestre 2021), e quello a chiamata o intermittente, che ha fatto un balzo in avanti di 91mila unità, più 48,2 per cento, toccando quota 280mila.
I settori? Davanti a tutti troviamo gli alberghi e la ristorazione che hanno fatto registrare un incremento dei contratti brevissimi dell’11,5 per cento rispetto al secondo trimestre del 2021, ma anche della quota dei rapporti con durata da sei mesi a un anno (più 4,6 punti). Il ricorso alla flessibilità estrema cresce anche nei comparti della pubblica amministrazione, dell’istruzione e della sanità: più 4,9 punti rispetto allo scorso anno.
Nelle costruzioni circa metà dei contratti dura meno di un mese, nell’informazione e comunicazione, compreso cinema, tv, editoria, i contratti di un giorno sono quasi la norma (63,8 per cento). Situazione diversa per agricoltura e industria in senso stretto, dove è maggiore l’incidenza delle nuove attivazioni con durate di almeno sei mesi.
“Da tempo rivendichiamo un ridisegno della struttura regolativa dei rapporti di lavoro – conclude Scacchetti -. Sottrarre la possibilità di utilizzare alcune forme più precarie, incentivare l’indeterminato come principale forma di attivazione e per i giovani l’apprendistato o forme collegate che traguardino verso la stabilità. Inoltre vanno riviste le norme che regolano il tempo determinato. Anche i vincoli e i paletti introdotti dal decreto dignità, promosso per limitare il ricorso a tempo determinato, vanno modificati per evitare gli abusi a cui assistiamo”.