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Il dibattito sul futuro dello smart working è in pieno svolgimento. Molte sono le tesi a confronto e tante le polemiche che si sono accese. Come stanno davvero le cose e verso quali prospettive viaggiamo? Lo abbiamo chiesto al professor Amos Andreoni, che è stato per molti anni docente di Diritto del lavoro, presso l’università La Sapienza di Roma. Oggi è il legale di riferimento della Cgil, collabora con la Rivista Giuridica del Lavoro come componente del Comitato di indirizzo. E’ autore di numerose pubblicazioni in tema di lavoro, previdenza, diritto sindacale. Tra queste la monografia dal titolo “Lavoro, diritti sociali e sviluppo economico”, (2016).
Professore quali saranno gli effetti permanenti di una modalità di lavoro nata con l’emergenza?
Superata la fase di emergenza lo smart working (o lavoro agile da remoto), sarà permanente anche se in una proporzione minore rispetto ad oggi. Questa modalità di lavoro non sarà superata essenzialmente per due motivi: realizza risparmi di costi gestionali per le aziende e realizza un minor dispendio di tempo per i lavoratori per la riduzione degli spostamenti casa-posto di lavoro. Ora la difficoltà è quella di trovare un non facile equilibrio tra tempo di lavoro in presenza e tempo di lavoro da casa. Dipende ovviamente dal tipo di lavoro. I lavori più ripetitivi si possono anche svolgere da remoto, mentre i lavori in “front office”, o i lavori “fiduciari” si devono praticare solo in presenza. Si dovrà avere quindi la capacità di distinguere caso per caso. Ma è chiaro che il lavoro da remoto produrrà effetti permanenti sia per quanto riguarda i luoghi di lavoro, sia per quanto riguarda l’organizzazione delle città. Se il lavoratore starà più a casa non saranno più pensabili i quartieri dormitorio e serviranno molti più servizi nei quartieri.
È anche chiaro però che le esigenze delle aziende si potranno scontrare con quelle dei lavoratori. Che effetti potrà avere per esempio alla lunga lo smart working sulla battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro? C’è anche chi propone di considerare lo smart working come un part-time (quindi con meno salario)…
Le esigenze inevitabilmente in conflitto dovranno essere regolate da una normativa. Si dovranno prevedere confini precisi e linee insormontabili anche per quanto riguarda la gestione degli orari. L’orario di lavoro deve essere applicato sia quando si è in presenza, sia quando si lavora da casa. In questo senso, applicando l’orario contrattuale di lavoro si dovrà introdurre anche il diritto alla disconnessione. Fondamentale quindi sia per le aziende private, sia per il pubblico riorganizzare il lavoro sulla base di obiettivi da raggiungere. Ma anche qui occorre distinguere i lavori più di routine da quelli più “pregiati”. In questo senso uno degli effetti diretti dello smart working è l’aumento di importanza della dirigenza aziendale e della dirigenza pubblica. Il ruolo dei dirigenti che devono organizzare la programmazione del lavoro diventa cruciale. Non si potrà più applicare il vecchio schema degli ordini da eseguire. I dirigenti dovranno saper realizzare una programmazione che coinvolga i lavoratori per il raggiungimento degli obiettivi (e questo vale sia per il privato, sia per il pubblico). Da questo punto di vista vediamo l’attuale inadeguatezza della classe dirigente. Il problema è molto serio. Da questo punto di vista ridiventa anche attuale la questione della riduzione dell’orario di lavoro. Ci sono casi interessanti da analizzare. Ci sono per esempio delle multinazionali americane ed europee che in base ai loro aumenti di produttività hanno introdotto una nuova organizzazione della settimana lavorativa: 4 giorni di lavoro e 3 di riposo. Nei quattro giorni il lavoro è diviso tra lavoro in presenza e lavoro da remoto. Si è visto che la produttività aumenta se si riduce il tempo di lavoro settimanale.
Veniamo alla delicata questione del lavoro pubblico e del suo rapporto con il lavoro dei settori privati. Quale sarà il punto di equilibrio? E che cosa produrranno le recenti esternazioni del ministro Brunetta?
A parte le polemiche che si sono sollevate durante il periodo estivo, i lavoratori pubblici potrebbero essere anche avvantaggiati rispetto ai loro colleghi del privato perché si va verso il rinnovo dei contratti. In quel contesto è necessaria anche una regolamentazione e ridefinizione precisa del lavoro da casa. Ma anche qui bisogna fare delle differenze. Per una certa tipologia di lavoro (come il “front office” per esempio) la presenza in ufficio non è superabile. Pensiamo per esempio agli insegnanti. In una prospettiva di auspicabile superamento della Dad, l’insegnante dovrà essere in aula (anche se magari potrà svolgere altre funzioni, tipo la partecipazione alle riunioni collegiali, anche da remoto). Un cancelliere che deve ricevere gli avvocati non potrà farlo da casa. Esistono quindi casi concreti che implicano la fine totale del lavoro da remoto. Altre tipologie di lavoro (la classificazione immobiliare al catasto per esempio) potranno essere svolte da remoto. Spetterà quindi alla contrattazione e agli accordi stabilirlo. Quando il ministro Brunetta dice che la fase di emergenza va superata per il bene dei cittadini che hanno diritto ai servizi, ha ragione. Non possiamo lasciare uffici vuoti. Per quanto riguarda il settore privato dobbiamo avere un primo punto fermo: la nuova regolamentazione del lavoro non potrà basarsi su accordi individuali. Non possiamo cioè affidare la regolamentazione del lavoro da remoto a rapporti singoli tra due soggetti (il lavoro e l’impresa) che non sono su un piano paritario. Ci deve essere quindi un accordo a monte, un accordo collettivo che detti le linee guida.
Professore un’ultima domanda generale: dovrà essere la legge o la contrattazione a regolare la materia?
Da quello che ho già detto credo risulti chiaro il quadro che immagino. Ci dovrà essere una legge che prevede la priorità (precedenza) dell’accordo collettivo nazionale che demanda agli accordi individuali. In molte realtà di lavoro questo schema esiste già, in applicazione dell’articolo 39 della Costituzione. Una legge, dopo la lunga fase di emergenza, deve stabilire il carattere preventivo dell’accordo collettivo nazionale. Poi ovviamente ci sarà spazio per la contrattazione in azienda. La norma dovrà fissare i paletti sul rapporto tra contrattazione collettiva e contrattazione individuale, sull’orario di lavoro e sul diritto alla disconnessione. Si dovranno stabilire criteri certi anche per quanto riguarda i costi (non potrà essere il dipendente che lavora da casa a sobbarcarsi i costi del telefono, dell’energia, ecc.). Si dovrà ragionare su una equa ripartizione. Per concludere la risposta: alla legge spetterà definire il quadro generale, alla contrattazione sono demandati i contenuti degli accordi.