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Lo smart working oggi in Italia è una questione complessa: non tutto è bianco o nero, ma si impone la necessità di aprire una riflessione seria sullo strumento, indagare luci e ombre, vedere cosa c'è e cosa manca, quindi cercare di regolarlo per sfruttarne i lati positivi nel prossimo futuro. Ne abbiamo parlato con la segretaria confederale della Cgil, Tania Scacchetti.
Segretaria, il professor Renato Fontana nel suo intervento su Collettiva invita a non fare generalizzazioni: all'inizio della pandemia da Covid-19, scrive, "una quota significativa del lavoro è stata trasferita dagli uffici alle abitazioni dei singoli impiegati (...): sic et simpliciter". Cosa ne pensi?
È una riflessione molto utile. Nel nostro Paese abbiamo la tendenza storica alle misure straordinarie, è stato così anche in questo caso. Non si è trattato di un vero e proprio smart working, ossia regolato ai sensi della norma che presuppone un'organizzazione del lavoro diversa, più responsabile e autonoma. Al contrario le lavoratrici e i lavoratori si sono trasferiti a casa svincolati dall'obbligo di accordo. Va detto però che all'inizio del Covid lavorare da casa è stata una misura di protezione importante, la Cgil lo ha sempre sostenuto: si è garantita la continuità di moltissime attività essenziali evitando assembramenti, troppe persone negli uffici, insomma operando in condizioni di sicurezza.
Come abbiamo premesso, quindi, lo strumento può contenere lati positivi e altri meno.
Lo smart working in sé non è buono né cattivo. È molto legato alla condizione soggettiva di chi lo fa: prima della pandemia era visto come una sorta di concessione, che avveniva attraverso accordi individuali supportati dalla contrattazione di secondo livello. Inoltre la normativa sulla pubblica amministrazione, che indica una quota del 10% (legge Madia, ndr), era disapplicata in moltissime realtà. Quello che adesso chiamiamo "smart working" è un fatto senza precedenti nel mondo del lavoro: si tratta di un'accelerazione improvvisa determinata da un fatto terzo, che da una parte ha messo in luce opportunità e fatto superare delle remore, soprattutto nei livelli manageriali che credevano impossibile organizzare il lavoro in questo modo. Dall'altra parte ne vediamo anche le criticità.
Quali sono?
Abbiamo molte questioni aperte: il problema dei tempi e degli orari, il riconoscimento degli straordinari e la reperibilità, che ricade su un'altra questione molto discussa, il diritto alla disconnessione. Inoltre si è imposto il nodo della dotazione strumentale, ovvero quali strumenti hanno i lavoratori nelle loro abitazioni e quali l'azienda è tenuta a fornire. Poi c'è il sistema di connessione, la privacy e la necessità di garantire i dati personali. C'è il diritto alla formazione, che dovrebbe accompagnare tutti coloro che operano da remoto. I mesi successivi all'epidemia hanno aperto scenari che prima erano sconosciuti: per molti lavoratori si rischia l'effetto segregazione, che può danneggiare le professionalità, ovvero il bagaglio di competenze che lavorando solo da casa rischia di deteriorarsi. A questo va aggiunto l'impatto sugli spazi cittadini ed economici, perché lo svuotamento dei posti di lavoro in presenza ha portato conseguenze su ristorazione, mense, bar, vitalità dei quartieri e altri riflessi che bisogna indagare. Tra le possibili criticità non sottovalutiamo quella che riguarda le donne: uno strumento nato come conciliazione può finire per accentuare i divari di genere. In altre parole, se lo smart working viene utilizzato solo dalle donne il pericolo è peggiorare la qualità del loro lavoro e isolarle dai processi aziendali, rendendo difficile la carriera. C'è quindi il fenomeno del rientro al Sud: moltissimi lavoratori e lavoratrici, che in questa fase non stanno fisicamente nelle aziende, sono rientrati nelle regioni del Meridione. Questo da una parte restituisce le intelligenze al territorio, ma dall'altra pone l'esigenza di metterle in rete per farle crescere, altrimenti anche qui torna l'effetto segregazione. Insomma, come evidente, sono molti gli aspetti su cui occorre riflettere.
Fin dall'inizio della pandemia, la Cgil si è schierata in prima linea cercando di leggere correttamente lo smart working con tutte le sue possibili implicazioni. Cosa chiedete?
Lo smart working va contrattato. Questa è la nostra richiesta: bisogna renderlo una scelta consapevole del lavoratore e inserirlo come strumento dentro la contrattazione collettiva. Siamo davanti a una trasformazione fortissima, che parte da un'emergenza e determina una rivoluzione del lavoro, che in alcuni settori sarà permanente. Ora è il momento di porre all'attenzione del legislatore l'urgenza di norme che vincolino lo smart working alla negoziazione. Ricordiamoci che il rapporto e lavoratore non è mai pari: per questo lo strumento deve essere contrattato. Solo così possiamo far tornare lo smart working alla sua dimensione originaria, che prevede l'alternanza tra presenza e remoto e la possibilità reversibile di tornare indietro, a seconda delle necessità professionali e della condizione soggettiva della persona.
In conclusione, nella lunga strada per regolare lo smart working alcuni accordi sono arrivati negli ultimi mesi.
C'è stato il contratto nazionale della cooperazione alimentare, che prevede la figura dello smart worker. Poi abbiamo firmato molte intese di secondo livello, che stiamo raccogliendo e censendo. In generale gli accordi sullo smart working stanno crescendo: dentro c'è uno strumento rafforzato che viene destinato a una platea molto più ampia rispetto a prima della pandemia, e non si limita a un giorno a settimana. Cerchiamo di fare un ragionamento effettivo sulla trasformazione dell'organizzazione del lavoro, che significa rivedere anche le attività manageriali, con l'obiettivo di minimizzare le criticità. Lo smart working è una partita complessa: non c'è una ricetta, c'è sul tavolo una complessità che dobbiamo avere l'intelligenza di analizzare e capire.