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Smart working addio! Dal primo aprile si conclude l’esperienza del lavoro agile, che si è diffuso in maniera massiccia con la pandemia ed è proseguito fino a oggi in regime emergenziale, grazie a ripetute proroghe e rinvii, per i lavoratori con problemi di salute e per i genitori di figli under 14.
Da lunedì di Pasquetta, quindi, si chiude una fase e si ritorna alla disciplina ordinaria normata dalla legge 81 del 2017, che prevede per tutti la stipula di un accordo individuale tra lavoratore e azienda sia nel settore privato che nel pubblico. A oggi, dati alla mano, il numero degli occupati che vi fanno ricorso è ridotto: sono il 13-14 per cento del totale della forza lavoro.
Impresa e potere direttivo
“Numeri a parte, penso che lo smart working sia un’opportunità che non è stata generalmente colta – afferma Nicola Marongiu, responsabile dell’area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -. Eccetto alcuni settori che hanno strutturato il ricorso a questa modalità, si è tornati alla situazione preesistente, quindi all’attività resa in presenza. Questo è accaduto per un insieme di ragioni: la tipologia di impresa che abbiamo in Italia, la sua dimensione, e un distorto utilizzo del potere direttivo, per cui la possibilità di coordinare l’attività deriva soltanto dalla presenza fisica delle persone presso la sede. Ed è successo nonostante ci sia stata una robusta contrattazione collettiva, che ha sostenuto lo smart, a partire dal pubblico”.
In tutti i contratti del settore pubblico, infatti, è stato inserito il lavoro agile, mentre nel privato lo hanno normato una cinquantina di contratti collettivi nazionali e oltre 300 accordi aziendali sottoscritti. Però si è radicato solo in alcuni settori: bancario, assicurativo, call center, servizi in generale. Settori che già prima prevedevano prestazioni lavorative a distanza.
Pubblico è agile
“Si è radicato abbastanza anche nel pubblico – aggiunge Marongiu -. Spesso il discrimine sulla scelta di un posto di lavoro, per chi ha questa possibilità, deriva anche dal numero delle giornate fruibili in lavoro agile in una determinata amministrazione: la possibilità di accorpare periodi, di evitare i trasferimenti e quindi di mantenere una pendolarità. Insomma una leva di tipo organizzativo ma anche uno strumento utile a fidelizzare il rapporto con i propri lavoratori. Recentemente i concorsi hanno reso evidente questa necessità”.
D’altra parte, per dare una spinta considerevole allo smart sarebbe stata determinante una norma europea, che non è stata mai approvata: dopo l’accordo quadro sottoscritto a suo tempo sul telelavoro, che è una specifica tipologia di smart, il percorso che poteva portare a una direttiva in materia è naufragato. E così in ambito Ue i Paesi procedono in ordine sparso.
Prassi in Italia
Ma come funziona in Italia? “Lì dove sono stati firmati contratti collettivi o accordi di secondo livello che lo prevedono, normalmente è un’opzione – spiega ancora il dirigente Cgil -: il lavoratore è libero di scegliere se utilizzare o meno lo smart, anche rispetto al numero di giornate. Le intese più evolute hanno individuato la quantità massima in un mese, tra i 10 e i 12 giorni, quindi circa 2-2,5 a settimana, con la possibilità anche di accorparli su base settimanale o mensile, sempre privilegiando il meccanismo dell’alternanza tra presenza e remoto”.
Il contratto collettivo o l’accordo aziendale, quindi, regola alcuni aspetti, dalla strumentazione al buono pasto, dalle fasce di operabilità al diritto alla disconnessione, dal trattamento dei dati ai temi della salute e sicurezza. Poi, a seguito dell’accordo collettivo, interviene quello individuale, assolutamente necessario in base alla norma.
Eccezioni alle regole
Rimangono le regole sull’accesso prioritario per alcune categorie, previste dalle modifiche alla legge del 2017: lavoratori che abbiano un disabile a carico in situazione di gravità accertata (legge 104/1992) o figli fino ai 12 anni di età. Ancora, in presenza di figli disabili, se il figlio ha “una minorazione, singola o plurima, che abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”; inoltre per agevolare il caregiver, l’assistente familiare di un soggetto che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia più autosufficiente.
Insegnamenti della pandemia
Ma quindi la pandemia, da cui dovevamo uscire tutti migliori, che ci avrebbe insegnato tanto, compreso un modo nuovo di lavorare, non ci ha lasciato niente? “Perché ci sia un ricorso strutturato al lavoro agile le aziende devono fare investimenti – conclude Marongiu della Cgil -. Sia sul versante tecnologico, reti protette, Pc, strumenti per lavorare a distanza, procedure, che sul fronte organizzativo. E non tutte le imprese sono nelle condizioni di affrontarli. Quelle che lo hanno fatto come Enel ed Eni, dove il personale non operativo ricorre in modo massiccio al lavoro agile, hanno raggiunto buoni risultati, la produttività non si è ridotta. Se si considera uno dei parametri fondamentali, l’incidenza delle cosiddette assenze brevi, ebbene in quelle realtà è crollata”.