PHOTO
L’ultima volta che sono entrato nel mio posto di lavoro era venerdì 6 marzo. Da allora come quasi tutti i miei colleghi sono in “lavoro agile per calamità”, e la mia attività, compresa quella sindacale, si è spostata integralmente tra le mura domestiche.
Abbiamo iniziato quasi subito a fare riunioni virtuali con i mezzi più disparati, a partire da quelli che erano già disponibili sulla piattaforma dell’Istat, e che molti colleghi già usavano. Grazie al grande lavoro degli informatici dell’istituto in pochi giorni quasi tutti avevano gli strumenti software per connettersi al proprio desktop virtuale e al pc dell’ufficio. Molti colleghi hanno ricevuto materiali hardware, la gran parte si è attrezzata con quello che aveva a casa.
Quasi subito sono cominciati anche i confronti sindacali con l’amministrazione, in modalità “a distanza”, ognuno da casa sua. La gran parte del dibattito si è concentrata su come gestire la situazione della pandemia. È stato difficile ma spesso stimolante scontrarsi e accordarsi in una situazione in cui da tutte e due le parti del “tavolo” si stava vivendo una modalità di lavoro inedita e obbligata.
Contemporaneamente come lavoratori siamo stati impegnati a cercare di mantenere tutti gli impegni correnti dell’istituto, il rilascio dei dati con il suo fitto e inesorabile calendario. E non solo. Perché da subito è apparso evidente che il paese chiedeva all’ente statistico uno sforzo aggiuntivo. È così che l’Istat, in pieno lockdown è riuscito in “tutto quello che non si poteva”. Ha anticipato di diversi mesi il rilascio dei dati di mortalità, ha collaborato con l’Iss a numerosi rapporti specifici sui decessi per Coronavirus e sulle cause di morte (anche in questo caso con largo anticipo rispetto alla “normalità”), ha realizzato due indagini specifiche sugli aspetti economici e sociali dell’emergenza, ha collaborato con il ministero della Salute e l’Iss alla realizzazione dell’indagine sulla sieroprevalenza, ha collaborato con il governo alla predisposizione dei codici Ateco in occasione del lockdown di marzo, ha curato scenari economici e sociali, è stato coinvolto nell’osservatorio sul mercato del lavoro in seguito all’emergenza Coronavirus, ha aggiunto domande a numerose indagini e ha elaborato un Rapporto Annuale completamente dedicato alla pandemia e alle sue conseguenze economiche e sociali.
Per far sì che queste novità positive non si perdano ci sarebbe bisogno di un forte investimento aggiuntivo per assunzioni e strumenti, digitali e non. L’Istat ha un bilancio fermo da anni. L’investimento sui censimenti, che è servito all’ente nella sua storia per rinnovarsi, si è più che dimezzato col passaggio al “censimento continuo” e si esaurirà presto. Tra pochi mesi l’Istituto nazionale di statistica rischia di scendere sotto la soglia di duemila dipendenti per la prima volta dagli anni Sessanta.
Anche per questo tra i progetti del Recovery Fund sarebbe opportuno inserire l’investimento sulla ricerca e sulla statistica pubblica che da anni chiediamo e che renderebbe il paese più forte, non solo nell’emergenza. Tra i fondi assegnati fino ad ora sono stati esclusi tutti gli enti di ricerca che non dipendono direttamente dal ministero dell’Università e della ricerca. Tra questi, oltre all’Istat, ci sono enti in prima linea nella ricerca di base e nel supporto tecnico alle politiche del Paese: Iss, Crea, Ispra, Enea, Inapp.
Tutto quello che l’Istat ha realizzato e sta realizzando è stato possibile anche perché siamo stati connessi e responsabilizzati, ognuno dalla sua abitazione, arrangiandoci in condizioni a volte difficili (convivenze forzate, ambienti e strumenti non ideali, gestione contemporanea di familiari da assistere o figli piccoli), ma con indubbi vantaggi, anche lavorativi: il lavoro da remoto ha favorito una maggiore “orizzontalità” dell’organizzazione che a sua volta è un presupposto dell’attività di ricerca e che invece le rigide gerarchie dell’ufficio, espresse anche dagli spazi fisici e dalla distanza fra le sedi, spesso frenano.
Tra giugno e luglio, quando la pandemia sembrava a tutti avere allentato la presa, non si sono liberati solo gli spostamenti all’interno e all’esterno del paese, ma anche, purtroppo, una serie di pensieri tossici che hanno ripreso a circolare. La cantilena sui dipendenti pubblici fannulloni, che era sparita per qualche mese seppellita dall’eroismo di operatori sanitari, ricercatrici e ricercatori, ha ripreso vigore: questa volta l’accusa dei tuttologi da talk show ai dipendenti pubblici, con forza respinta dalla Cgil, è di essere fannulloni perché in smart working.
Difficile conciliare il coro di “autorevoli” opinionisti con la realtà dei lavoratori dell’Istat (e di tantissimi altri enti pubblici) impegnati a far funzionare un ente di ricerca che produce quotidianamente i dati per analizzare i fenomeni sociali ed economici che gli stessi commentano in tv.
Purtroppo quelle parole al vento hanno influenzato le decisioni politiche. Con il decreto rilancio infatti l’intera pubblica amministrazione è stata chiamata, tutta e a prescindere, a “ripartire” (come se si fosse fermata) da settembre, riportando i dipendenti in ufficio, pur continuando lo smart working al 50 per cento, per dimostrare di non essere “lazzaroni” e consentire ai bar e alle pizzerie nei quartieri degli uffici a corto di clienti di non fallire. In una situazione di ripresa della circolazione del virus dopo il mese di agosto, oltre alle incognite sulla riapertura delle scuole e sulle conseguenze sanitarie dell’appuntamento elettorale del 20 e 21 settembre, la legge ha previsto, in contemporanea, la rimessa in circolazione di almeno un milione di dipendenti pubblici, senza distinguere tra chi svolge attività di servizio al cittadino in presenza e tutti gli altri il cui lavoro non è stato compromesso dalla modalità in remoto. È davvero una decisione oculata?
E così anche all’Istat, a partire dall’inizio di settembre, in anticipo rispetto ad altri enti, l’amministrazione ha deciso di dare il segnale e riaprire le sedi, seppure con turnazioni e tutele delle fragilità. Nel confronto sindacale, che purtroppo non è normato e lascia ampi margini alle decisioni unilaterali delle amministrazioni, siamo riusciti a fine luglio a inserire criteri di tutela, ma il tempo stretto per decidere i “piani di rientro” e la ritrosia di alcuni dirigenti a far valere pienamente quelle condizioni ha creato e sta creando un forte malcontento. E la prima vera assemblea virtuale che abbiamo organizzato a inizio settembre lo ha dimostrato.
Riaprire le sedi è una necessità, per la parte di colleghe e colleghi che in questi mesi ha sofferto per l’isolamento, la strumentazione insufficiente, la connessione ballerina o gli spazi inadeguati. E anche per chi, nella catena degli appalti, rischia di rimanere senza lavoro, come le lavoratrici e i lavoratori delle mense dell’Istat di Roma. Con loro siamo scesi in piazza a luglio e finalmente sono stati riassunti.
Ma una maggiore gradualità sarebbe stata e sarebbe preferibile. Molti colleghi si chiedono e ci chiedono perché lavorare in ufficio, magari prendendo i mezzi pubblici, rischiando il contagio proprio e degli altri, quando stiamo lavorando bene, anzi meglio, da casa. E la risposta noi non ce l’abbiamo. Occorrerebbe chiederlo innanzitutto a Rampini, Ichino o Cottarelli.
A oggi l’organizzazione del lavoro, e quindi anche lo smart working, non è materia di contrattazione sindacale, ma quando si parla di “lavoro agile”, “da remoto” o “smart working” si deve partire dalle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, contrattando le regole, oppure si rischia il fallimento. Per questo stiamo continuando a cercare di riportare al tavolo sindacale, per il presente e per il futuro, le decisioni sul lavoro agile e sull’organizzazione del nostro istituto.
Lorenzo Cassata, ricercatore Istat e responsabile del comitato di ente per la Flc Cgil