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Il dramma dei morti sul lavoro non accenna a placarsi. L’Inail, stando agli ultimi dati certificati, ha comunicato che nel 2024 le vittime del lavoro sono state 1.090, 49 in più rispetto al 2023. Lo scorso anno, tra l’altro, sarà ricordato per gli incidenti mortali plurimi, che hanno provocato 39 vittime. Quelli che hanno avuto maggiore impatto mediatico sono stati il crollo nel cantiere Esselunga a Firenze, l’esplosione nella centrale elettrica di Suviana, la tragedia alla rete fognaria di Casteldaccia e l’esplosione nell’area carico dell’Eni a Calenzano.
“Sono numeri impietosi. E, cosa ancora più grave, sono in crescita”, dice Francesca Re Ravid, segretaria confederale Cgil: “Crescono gli infortuni mortali, quelli gravi e invalidanti, ma anche quelli minori che spesso non vengono denunciati. Molte aziende, in particolare le multinazionali, fanno di tutto per non far emergere gli incidenti, per evitare responsabilità”.


Perché non si riesce a fermare questa strage?
Perché si lavora male. Si lavora in fretta, sotto pressione, con l’ansia costante di perdere il posto. Il sistema degli appalti e subappalti ha ridotto le persone a meri strumenti di produzione. È questo il vero male: un modello disumano, in cui la sicurezza è vista come un ostacolo da aggirare.
Oggi si continua a morire come accadeva 60 anni fa…
Esattamente: cadute dall’alto nei cantieri edili, mezzi agricoli vecchi e pericolosi, macchinari cui vengono tolti i dispositivi di sicurezza per velocizzare i tempi. E poi c’è il fenomeno delle morti “in itinere”. Molte donne, per fare otto ore di lavoro, devono spostarsi tra tre o quattro posti diversi ogni giorno. E muoiono negli spostamenti. Si muore perché il lavoro è povero, frammentato, sfruttato. Negli anni Sessanta avevamo circa 4 mila morti sul lavoro all’anno. Negli anni Ottanta si era scesi a 2 mila, poi ancora meno grazie alle lotte dei lavoratori e a leggi come la 626 del 1994 e il Testo unico del 2007. Quelle conquiste nascono dal principio “la salute non si vende”. Ma oggi sembra che ci siamo dimenticati di tutto questo.
Dopo tragedie come quella alla Thyssenkrupp nel 2007 o quella recente all’Esselunga, cosa è cambiato davvero?
Dopo la strage della Thyssenkrupp nacque il Testo unico sulla sicurezza. Dopo l’Esselunga, dove ci sono voluti giorni per capire chi fossero i lavoratori morti, molti dei quali immigrati irregolari, è stata introdotta la cosiddetta ‘patente a crediti’. Ma attenzione: non si chiama “a punti” come previsto inizialmente, e le parole contano. È un provvedimento limitato ai cantieri edili, con effetti che si vedranno forse tra cinque o sei anni. Perché le sanzioni arrivano solo a processo concluso. Non è certo una risposta d’urgenza, e rischia di essere un provvedimento puramente burocratico. Perché per ottenere la patente basta presentare i documenti necessari per poter aprire un’azienda. Senza quei documenti non la si potrebbe neanche aprire, e tra l’altro vengono presentati con un’autodichiarazione. Insomma, non c'è stata alcuna stretta effettiva, nemmeno in edilizia.
Cosa sarebbe più efficace?
Per esempio, il badge di cantiere: sapere chi entra, quando, quanto lavora. Oppure l’eliminazione dei subappalti. Dove sono stati applicati accordi seri, come per il Giubileo di Roma o la linea tranviaria di Bologna, che prevedono di non avere il subappalto, di avere il badge e altri elementi di controllo, non ci sono stati morti. I controlli funzionano se si vogliono far funzionare.
Eppure si parla spesso della mancanza di ispettori del lavoro…
Il numero è ridicolo rispetto alle aziende attive. I servizi delle Asl, come la medicina del lavoro, sono stati praticamente smantellati. Con i nuovi tagli lineari alla spesa pubblica, la situazione peggiora. E poi, oggi, con le nuove norme le aziende possono essere preavvisate anche dieci giorni prima di un’ispezione. Quindi è chiaro che è una struttura del tutto inadeguata a svolgere la sua funzione. Il tema degli ispettori è enorme ed è collegato al taglio e alla spesa sociale.
Cos'altro potrebbe fare la differenza?
I Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, dove ci sono davvero e riescono a operare. Gli Rls vivono dentro i loro luoghi di lavoro, li conoscono e avrebbero la possibilità di intervenire efficacemente e in tempo. Ma spesso vengono ostacolati perché “rallentano la produzione”. Anche qui, il problema è culturale: si considera la sicurezza un intralcio, non un diritto.
Anche sulla sicurezza, poi, intervengono i referendum promossi dalla Cgil per l'8 e 9 giugno...
Sì. C’è un quesito molto importante, il quarto. Chiede di ripristinare la responsabilità dell’impresa madre nella catena degli appalti. Oggi, grazie alla famosa legge 30 dei primi anni Duemila, se un incidente accade in un appalto, la grande impresa, l’impresa madre, non risponde. Come l’Esselunga, l’Enel o l’Eni, per parlare solo delle stragi che ci sono state in quest’ultimo anno. Questo vale se l'appalto è “specifico”, ma l’appalto dovrebbe sempre essere “specifico”, perché altrimenti non dovrebbe esistere.
Cosa si vuole ottenere, dunque, con il referendum?
Il quarto quesito chiede l’abrogazione delle norme che escludono la responsabilità solidale dell’impresa committente per il risarcimento dei danni in caso di infortuni sul lavoro collegati all’attività produttiva dell’impresa appaltatrice. Ma è chiaro che chi impone ritmi, tempi, modalità, deve essere responsabile. È lì che si muore: dove tante aziende s'incontrano, lavorano senza coordinamento e s'intrecciano in un caos pericoloso.
Un ruolo, in questo senso, possono averlo anche gli altri quesiti referendari?
Assolutamente sì. Perché colpiscono la precarietà, che è il volto moderno dello sfruttamento. Quando il lavoro è precario, la persona non è rispettata. E il massimo disprezzo per la persona è metterne a rischio la sicurezza, quindi la vita stessa.