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Ben il 13% in meno, questa la cifra che misura la differenza salariale tra donne e uomini in Europa, attorno all’11% in Italia. Ma mansioni e ore lavorate sono uguali. Perché questa differenza? Per stereotipi duri a morire, per pregiudizi che occorre sconfiggere. Nell’industria, ad esempio, a parità di inquadramento il salario dei metalmeccanici è più alto di quello dei tessili: tra i primi sono di più gli uomini, tra i secondi le donne sono in maggioranza ed il gioco è fatto.
Insomma, le professioni a predominanza di manodopera femminile hanno mediamente una retribuzione più bassa. Ovviamente questo differenziale si ripercuote anche sulle pensioni, ma moltiplicato per due, perché le donne hanno una permanenza nel mondo del lavoro più frammentata, soprattutto se hanno figli. Infatti l’ultimo rapporto dell’Inps (appena pubblicato) fissa al 38% la differenza degli assegni tra pensionate e pensionati.
Non solo i settori, ma anche le imprese
Capita poi, per fortuna non sempre, che all’interno della stessa impresa le donne per lavori di pari valore vengano inquadrate, e quindi retribuite, in maniera diversa dai colleghi. Le ragioni di questo divario sono antiche e, appunto, discendono da stereotipi. Conoscendo un po’ la storia, si scopre che durante la prima e la seconda guerra mondiale le donne sostituivano gli uomini andati al fronte facendo funzionare le fabbriche. Poi furono “costrette” a lasciare il posto a quanti, lasciate le armi, tornarono a casa. L’uomo alla produzione, le donne tra le mura domestiche a occuparsi di riproduzione. Oggi per fortuna non è più così, anche se l’Italia, in Europa, è buon ultima per occupazione femminile. E poi, nel Paese della crisi demografica, una delle ragioni di discriminazione è proprio la maternità.
Interviene l’Europa
Lo scorso giugno il Parlamento europeo ha approvato la Direttiva sulla trasparenza salariale che chiede alle imprese di rendere trasparenti gli stipendi di uomini e donne e, se si registrasse un differenziale superiore del 5%, a intervenire correggendo il gap. I datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire informazioni sul salario iniziale e non potranno chiedere ai candidati all’assunzione quanto guadagnassero in altri luoghi. Ancora, secondo la Direttiva i dipendenti potranno chiedere quali siano i livelli retributivi medi ripartiti per sesso e quali siano i criteri per la progressione retributiva e di carriera. Non solo: le vittime di discriminazione salariale dovranno essere risarcite e i datori di lavoro che violeranno le norme saranno sanzionati.
E in Italia?
Il nostro, come gli altri Paesi membri, ha tre anni di tempo per recepire le norme europee, e speriamo che vengano rispettate le scadenza. I timori nascono dal fatto che la Direttiva è stata approvata dal Parlamento europeo con 427 voti a favore, 79 contrari e 76 astensioni: tra i voti contrari ci sono quelli dei parlamentari di Fratelli d’Italia.
L’impegno della Cgil
“Siamo impegnate a promuovere il recepimento della Direttiva – dicono Lara Ghiglione (segretaria confederale Cgil) ed Esmeralda Rizzi (componente Cgil del Comitato donne Ces) –alla cui stesura il Comitato donne Ces ha attivamente contribuito, sia correggendo elementi che avrebbero potuto limitare l’azione sindacale e i diritti delle lavoratrici sia estendendo alcune previsioni normative”.
Per annullare il divario salariale di genere servono l’impegno sindacale, quello legislativo e anche quello culturale, per rendere possibile il superamento degli stereotipi che ledono l’autonomia e la libertà delle donne. Serve l’impegno di donne e di uomini.