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La riflessione di Giuseppe Amari (su Rassegna del 10 luglio 2018), al quale va la gratitudine di coloro che amano interrogarsi (e preoccuparsi) sul senso, sulla direzione del modello attuale di economia di mercato, è ricca di stimoli intellettuali, oltre che di preziose considerazioni sulla centralità della persona umana che lavora nell’impresa. Lo spazio a disposizione non mi consente che di seguire un solo filo dell’ampio ordito confezionato da Amari: quello riguardante il passaggio dalla concezione dell’impresa come associazione a quella dell’impresa come merce.
Narrano gli storici d’impresa che, fino agli inizi del Novecento, era dominante la concezione dell’impresa come associazione (the firm as association), cioè come organizzazione sociale la cui esistenza era legata a un atto di volontà di un’autorità sovrana. Ciò in quanto la natura dell’impresa – come insegnava la giurisprudenza medievale sulla base del diritto romano – è quella di una società, cioè di un ente formato da un certo numero di persone che sono state incorporate in una personalità giuridica distinta dalle persone naturali coinvolte, ciascuna delle quali ha responsabilità limitata rispetto alla società. La responsabilità limitata vale a garantire che le persone che gestiscono la società, che investono in essa risorse, o che in essa lavorano, non siano personalmente responsabili di fronte ai creditori della società e, più in generale, alla legge.
Evidenti sono i vantaggi dell’investitore di capitali nella corporazione, la quale permette che costui possa possedere qualcosa senza esserne personalmente responsabile e quindi perseguibile a causa di quella proprietà. D’altro canto, i manager devono rappresentare la società come un tutore rappresenta gli interessi di un minore, perché la società, in quanto risultato di una fictio iuris, non ha una volontà e un’intenzionalità e pertanto è irresponsabile delle sue azioni. L’incorporazione – osserva M. Vetter – è il principale strumento giuridico per assicurare l’accumulazione del capitale. Senza un tale strumento, si realizzerebbe solamente un accumulo di denaro o di tesori, ma non di capitale. In definitiva, poiché è lo Stato, in quanto autorità sovrana a dar vita all’impresa-società e dato che lo Stato persegue finalità di natura pubblica, ne deriva che l’impresa dotata di personalità giuridica legittima la propria esistenza solo nella misura in cui dimostra di perseguire interessi pubblici.
Un primo mutamento radicale rispetto a tale concezione si registra verso la fine degli anni venti del XX secolo, quando Adolf Berle e Gardiner Means, dall’alto della loro autorevolezza scientifica, lanciano la tesi, diventata poi celebre, della separazione tra proprietà e controllo dell’impresa. Con il che la corporation inizia a essere considerata come ente che persegue interessi privati e non più pubblici. Un tale mutamento di prospettiva non avviene senza lasciare macerie sul campo. Si pensi, per un solo esempio, all’aspro dibattito tra Berle e E.M. Dodd, con il primo a difendere la nuova linea di pensiero, che risulterà alla fine vincente, e il secondo a cercare di mantenere la concezione precedente, secondo cui il manager, non essendo il fiduciario degli azionisti, ma il tutore dell’impresa, deve curare gli interessi di tutti gli stakeholder secondo una logica di servizio. “Le attività di impresa – scrisse Dodd, Harvard Law Review, X, 1932 – sono permesse e incoraggiate dalla legge perché sono un servizio alla società, piuttosto che fonte di profitto per i suoi proprietari”.
La nuova linea di pensiero che inaugura la dottrina dello shareholder value, pur sprovvista di adeguata fondazione teorica e in particolare giuridica, finisce con il dominare pressoché incontrastata fino agli anni settanta, quando un insieme di fenomeni nuovi (stagflazione, crisi petrolifera del 1973, cattiva performance di Borsa delle grandi imprese) obbliga non pochi studiosi e uomini d’affari a porre in discussione il modello di corporate governance fino ad allora rimasto indiscusso. Anche perché lo stesso Berle in quegli anni inizia a prendere le distanze dalla sua posizione precedente. Nel suo “La Repubblica economica americana”, del 1963, si legge: “Il profitto e il desiderio di potere non inducono a fare grandi sforzi per accrescere la capacità o espandere la cultura degli altri uomini. Se il sistema economico dipendesse soltanto dal movente del profitto, esso finirebbe col suicidarsi”. Gli azionisti, soprattutto quelli istituzionali (fondi pensione, fondi di investimento), rivendicano il diritto di rimuovere i manager non performanti mediante l’esercizio del loro potere di comprare e vendere azioni allo scopo di indirizzare le politiche aziendali.
È a questo punto che la teoria neoclassica dell’impresa giunge in soccorso. A partire dalla critica radicale della centralizzazione del processo decisionale, come espressione di totalitarismo da parte di amministratori quasi inamovibili, gli autori neoclassici lanciano l’idea dell’impresa come merce (the firm as a commodity), che in quanto tale può essere comprata e venduta ad libitum a seconda della convenienza. L’impresa – come ha scritto R. Coase – è nulla più che una rete di contratti (a nexus of contracts) tra soggetti, individuali o collettivi, le cui transazioni vengono coordinate, come spiegano Alchian e Demsetz, in modo efficiente dal meccanismo dei prezzi. È su un tale presupposto che M. Jensen e J. Meckling (1976) elaborano il nuovo modello teorico, la nuova bibbia per la teoria dell’impresa: la massimizzazione del valore per l’azionista è condizione necessaria e sufficiente per massimizzare la ricchezza complessiva del sistema. Infatti, se si accolgono gli assunti del nuovo modello, gli azionisti, in quanto detentori del diritto al residuo, hanno tutto l’incentivo a far andare bene le cose e a rendere così massimo il valore dell’impresa. Le conclusioni del modello sono talmente seducenti che personaggi della statura di Milton Friedman ne restano letteralmente abbacinati.
Quali sono gli assunti che permettono al modello principale-agente di Jensen e Meckling di ottenere un risultato così miracoloso? Il primo è che gli azionisti possiedono l’impresa; il secondo è che essi, in quanto proprietari dell’impresa, hanno diritto al residuo; infine, che gli azionisti sono il principale che assume il manager come agente per gestire l’impresa in nome e per conto suo. Purtroppo, il risultato promesso dagli autori citati sarebbe assicurato se non fosse che i tre assunti sono tutti falsi. Come L. Stout (“The shareholder value myth”, San Francisco, Berrett – Koehler Pu. 2012), celebre giurista d’impresa, accuratamente ha dimostrato, non è vero che gli azionisti possiedono l’impresa, dato che questa possiede se stessa in quanto entità giuridicamente indipendente. Del pari, non è vero che gli azionisti hanno un diritto esclusivo al residuo, che invece spetta all’impresa, tanto che è il consiglio di amministrazione a decidere se e quanti profitti vanno distribuiti. Infine, i manager hanno doveri fiduciari nei confronti dell’impresa e non degli azionisti, dal momento che il cda viene in esistenza prima del principale – quanto a dire che gli azionisti non possono essere, giuridicamente, il principale degli amministratori.
Il manager, infatti, ha un rapporto fiduciario con il cda, non con gli azionisti. In uno studio particolarmente efficace, J. Nelson (“Economics for humans”, Chicago University Press, 2006) difende, convincentemente, due argomenti. Il fatto che l’impresa sia una istituzione a scopo lucrativo non implica affatto che il profitto debba essere il solo e unico fine da essa perseguito. Secondo, nessuna norma di legge, in nessun ordinamento giuridico del mondo, obbliga l’impresa a massimizzare il profitto. E dunque la dottrina della massimizzazione del valore per l’azionista è priva di ogni fondamento, sia economico che giuridico.
Eppure, nonostante la forza di una tale conclusione, il mito – come l’ha chiamato L. Stout – del primato dell’azionista è rimasto al centro dell’attenzione, sia nell’attività di ricerca, sia nelle prassi aziendali, fino allo scoppio della grande crisi del 2007-2008. Tanti e gravi sono stati i danni che l’adesione acritica a tale mito ha provocato alla comunità, oltre che agli stessi azionisti. “Questa visione – scrive J. Nelson – impone ai manager di focalizzarsi miopicamente sul breve termine a spese della performance di lungo termine, scoraggia gli investimenti e l’innovazione, danneggia gli occupati e i clienti, incoraggiando le imprese a cedere a comportamenti sociopatici e socialmente irresponsabili”.
In altro modo, secondo quel mito, il manager è condotto a massimizzare il valore finanziario dell’impresa, perché questo, dati gli incentivi, è anche il modo di massimizzare la sua ricchezza. Fuori da ogni vincolo di responsabilità morale – come sarebbe appropriato a un fiduciario che agisce in nome e per conto di un altro soggetto – il manager agisce come se egli stesso fosse un avido azionista. Questo spiazzamento del sistema di valori del manager (da custodi imparziali di interessi altrui ad avidi calcolatori del proprio interesse) è all’origine di pesanti esternalità negative, come i tanti scandali aziendali hanno puntualmente confermato.
Un solo esempio: lo scoppio della bolla dei derivati subprime nel 2007 fu un evento che non poteva certo essere preso in considerazione dagli azionisti, mentre poteva esserlo dai manager. Ma costoro ebbero tutto l’interesse a tenere nascosta quell’eventualità per incassare i benefici degli incentivi a essi assicurati per contratto. Per prevenire e rivelare i rischi incombenti, i manager avrebbero dovuto agire contro il loro stesso interesse personale; quanto a dire avrebbero dovuto sconfessare l’assunto di homo oeconomicus, quell’assunto sulla cui base si regge tutto l’impianto del modello principale-agente.
Non è per caso se alla base di tutti i grandi corporate scandals dell’ultimo trentennio troviamo un uso spregiudicato degli incentivi. Come B. Frey e M. Osterloh documentano (“Yes, managers should be paid like bureaucrats”, CES WP 1379, dic. 2004), a partire dal 1980 gran parte delle remunerazioni attribuite ai dirigenti d’impresa è stata legata a stock options. Nel 1970, un Ceo americano guadagnava 25 volte più del lavoratore medio dell’industria. Nel 1996, il medesimo rapporto era salito a 210 e nel 2005 a 500 (oggi si è arrivati a 700). Eppure, la performance delle imprese guidate da questi dirigenti non è affatto aumentata nella medesima proporzione. E allora? Perfino Michael Jensen, il teorico per eccellenza della rilevanza degli incentivi, è stato “costretto” dalla realtà ad ammettere che “le stock options si sono dimostrate eroina manageriale” (“On CSR”, The Economist, 16, Nov. 2002).
Quale il messaggio principale da trarre da quanto sopra? Il filosofo John Austin ha coniato l’espressione “performatività di un paradigma scientifico”, per significare l’influenza trasformatrice dei comportamenti delle persone derivante dall’affermazione di un certo paradigma. I paradigmi non suggeriscono solo linee di condotta, ma cambiano il mindset delle persone, cioè l’insieme di credenze e attitudini che guidano i comportamenti umani. Leggiamo in After Virtue (1984) di A. MacIntyre: “I manager stessi e gran parte degli studiosi di management concepiscono se stessi come soggetti moralmente neutri, le cui abilità consentono loro di escogitare i mezzi più efficienti per conseguire qualsiasi fine venga proposto. Che un certo manager sia efficace o meno è, nell’opinione dominante, una questione assai diversa da quella della moralità dei fini che la sua efficienza serve o meno. Ma vi sono forti ragioni per respingere l’assunto che l’efficienza sia un valore moralmente neutrale”. Quanto precede è un caso esemplare – certo non unico – che mostra quanto grande sia oggi la responsabilità del pensare. Il contributo di Giuseppe Amari bene assolve tale compito.
Stefano Zamagni è docente di Economia politica all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins University
Qui i link agli altri interventi sul dibattito aperto dal contributo di Giuseppe Amari:
- Qualche riflessione sulla metafora aziendalistica, Giovanna Leone
- La compartecipazione contro la tirannia dell'impresa etica, Attilio Pasetto
- Se fosse giunta l'ora di uno statuto dei luoghi di lavoro, Riccardo Leoni
- Natura e ruolo dell'impresa: perché ripensare i fondamenti, Anna Grandori