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Ci sono vertenze in cui arriva il momento che l’equilibrio (già instabile) si rompe. La rabbia sale, la pazienza finisce, si rischia il punto di non ritorno. Per Acciaierie d’Italia è quanto successo nella tarda mattinata di sabato 12 novembre, con l’annuncio della multinazionale di sospendere le attività di 145 aziende appaltatrici dell’indotto, gettando nella disperazione 2 mila lavoratori, e di aumentare la cassa integrazione per il personale diretto.
Si è alzata lì una prima ondata che ha iniziato a travolgere la più grande azienda siderurgica italiana. Come se non bastasse, cinque giorni dopo se n’è aggiunta un’altra, quella definitiva: alla riunione al ministero dell’Impresa di giovedì 17 novembre, convocata d’urgenza dal ministro Adolfo Urso su forte sollecitazione dei sindacati, Acciaierie d’Italia non si è presentata.
Una situazione non più sopportabile per Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil, che hanno dichiarato per oggi (lunedì 21 novembre) lo sciopero di quattro ore di tutto il gruppo di Acciaierie d’Italia. A Taranto lo stop è di 48 ore, con le prime 24 che si tengono oggi: previsti presìdi e un corteo (dalla portineria tubificio alle portinerie D e A, per concludersi alla portineria direzione).
La posizione della Fiom Cgil
“La situazione è drammatica”, ha raccontato il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma al Corriere della sera, in un’intervista apparsa sabato 19 novembre: “Da troppo tempo va avanti uno scaricabarile tra governo e azienda. Nell’accordo sulla cassa integrazione, che noi non firmammo, si prevedeva una produzione di sei milioni di tonnellate di acciaio nel 2022. Ma non si arriverà a tre milioni, con conseguenze negative sulla manutenzione degli impianti e sulla cassa integrazione”.
La Fiom Cgil, assieme alle altre sigle metalmeccaniche, chiede la nazionalizzazione del gruppo, come sta accadendo in Francia e Germania per gli asset industriali ritenuti essenziali per l’economia del Paese. “È già previsto che gestione e governance di Acciaierie d’Italia diventino pubbliche”, ha aggiunto De Palma nell’intervista: “Ma bisogna accelerare, perché è evidente che il socio privato Mittal non sta facendo il proprio dovere”.
Lo sciopero è necessario, ha spiegato il segretario generale, per “poter fermare l’eutanasia del gruppo in Italia e ricontrattare tutto”. Secondo De Palma, occorre che l’azienda “torni nelle mani pubbliche, a negoziare e contrattare il rilancio del lavoro, la tutela dell’occupazione, le condizioni di salute e sicurezza, l’ambientalizzazione delle produzioni. È l’unico modo per avere strategicamente la siderurgia come punto di riferimento nel futuro industriale del Paese”.
La Fiom chiede al governo “di assumere il controllo e la gestione di Acciaierie d’Italia, a partire dall’utilizzo delle risorse già stanziate (un miliardo di euro) per riequilibrare gli assetti societari, senza attendere la scadenza del 2024”. Si ricorda che il miliardo di euro è stato stanziato nel decreto legge “Aiuti bis” e affidato a Invitalia allo scopo di portare la quota pubblica al 60%. L’operazione doveva avvenire nel maggio scorso, ma è stata posticipata al maggio 2024.
La Fiom, in conclusione, sollecita anche l’istituzione di una “cabina di regia permanente presso il ministero per riscontrare la coerenza degli impegni, a partire dalla necessità che l’azienda ritiri i tagli alle imprese dell’indotto, che si riapra la negoziazione del mancato accordo sulla cassa integrazione straordinaria, che si verifichino gli assetti di marcia degli impianti e la loro sicurezza, che si garantisca l’integrazione salariale per i lavoratori in amministrazione straordinaria”.
La sospensione delle imprese appaltatrici
Sabato 12 novembre Acciaierie d’Italia ha reso noto la sospensione delle attività nello stabilimento siderurgico di Taranto, a partire da lunedì 14, delle attività di 145 imprese appaltatrici. La multinazionale non ha fornito motivazioni precise, parlando genericamente di “sopraggiunte e superiori circostanze”. La possibile ripresa delle attività è messa in calendario per il 16 gennaio prossimo: nel comunicato ufficiale l’ex Ilva scrive che “seguiranno in ogni caso nostre comunicazioni”.
Sono coinvolti circa 2 mila lavoratori, addetti di aziende (di cui 43 di Taranto) che vanno dalla manutenzione all’impiantistica. I lavoratori andranno dunque in cassa integrazione, anche se quest’ultima è già presente in larga parte dell’indotto. Imprese che stanno già soffrendo: come osservato da Confindustria Taranto, le aziende dell’indotto vantano complessivamente un credito di 100 milioni di euro verso Acciaierie. E si registrano sempre più sia i cali di ordini e commesse dal siderurgico verso l’esterno sia i ritardati o mancati pagamenti per lavori già eseguiti.
“È del tutto evidente – hanno commentato Gianni Venturi (segretario nazionale Fiom Cgil e responsabile siderurgia) e Giuseppe Romano (segretario generale Fiom Cgil Taranto) – che tale scelta, avvenuta con le solite modalità arroganti della multinazionale, è l’ennesima provocazione da parte del management aziendale che ancora una volta prova a utilizzare i lavoratori come grimaldello nei confronti dei governi esclusivamente per battere cassa”.
La cassa integrazione
Sempre nella medesima giornata di sabato 12 novembre, Acciaierie d’Italia ha annunciato il rialzo dei numeri sulla cassa integrazione per i lavoratori diretti. “Un aumento ulteriore e inspiegabile – hanno giudicato Venturi e Romano – che compromette il già precario sistema produttivo dello stabilimento di Taranto”. Questo aumento, e gli ammortizzatori sociali che scatteranno per i 2 mila dell’indotto, vanno ad aggravare una situazione già debilitata.
È dalla metà del 2019, cioè da poco dopo il subentro alla gestione commissariale dell’amministrazione straordinaria, che l’ex Ilva è costantemente ricorsa agli ammortizzatori sociali (prima cassa integrazione ordinaria, poi Covid, poi di nuovo ordinaria e ora straordinaria), con numeri variabili. Attualmente la cassa integrazione è in corso per i 3 mila lavoratori diretti della stessa ex Ilva, di cui 2.500 a Taranto (si tratta di cassa straordinaria per un anno, sino a marzo 2023).
In cassa integrazione straordinaria a zero ore sono anche i 1.600 addetti in carico a Ilva in amministrazione straordinaria. Quest’ultimi sono lavoratori che l’azienda (ArcelorMittal prima, Acciaierie d’Italia dopo) non ha assunto, per cui sono rimasti alle dipendenze della società proprietaria degli impianti (Acciaierie d’Italia è gestore in affitto) e sono in cassa dal 2018. Per questi lavoratori è stato da pochi giorni confermato, su sollecitazione dei sindacati, il rifinanziamento per il 2023 dell’integrazione salariale in loro favore, pari al 10% in più sull’ammontare della cigs.
La produzione
Per capire le preoccupazioni dei sindacati, basta leggere i dati della produzione di acciaio. Questa non ha mai toccato i sei milioni di tonnellate l’anno, che sono la soglia autorizzata sino alla completa attuazione degli interventi ambientali, e che già ArcelorMittal (subentrata nel novembre 2018 all’amministrazione straordinaria) indicava come obiettivo del 2019.
Nel bilancio di sostenibilità presentato nelle scorse settimane dall’azienda si legge che la produzione di Taranto è stata di 3,4 milioni di tonnellate nel 2020 e di 4,1 milioni di tonnellate nel 2021. Per quest’anno era stato dichiarato un obiettivo di 5,7 milioni di tonnellate, ma recentemente l’amministratore delegato Lucia Morselli ha dichiarato che “l’emergenza gas riduce un po’ la capacità produttiva, perché la quantità di gas va diminuendo”. Un obiettivo dunque non raggiungibile, considerando anche a Taranto sono fermi da luglio un altoforno su tre (il 2) e un’acciaieria su due (la 1).
La posizione del governo
“Una decisione che ha suscitato giustamente sconcerto”: così il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha commentato la sospensione delle 145 aziende, rilevando anche che le “modalità con cui è stata annunciata sono assolutamente inaccettabili”. Il titolare del dicastero aveva poi fatto notare che “nulla era stato preannunciato dall’azienda negli incontri che lo stesso ministro aveva avuto nei giorni scorsi con ceo e presidente di Acciaierie d’Italia, così come con l’azionista pubblico”.
Alla conclusione dell’incontro del 17 novembre, il ministro ha affermato che “salvare la siderurgia italiana fa bene al sistema-paese e anche all’Europa, per fornire acciaio nel rispetto degli standard dell’ambiente e del lavoro”. E ha annunciato che l’obiettivo del governo “è quello di riequilibrare la governance in modo che davvero ci sia una risposta rispetto agli impegni che la stessa azienda ha preso e secondo le scadenze date nei precedenti accordi”.