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Il cerchio si stringe. E lo spazio per pescare, nel nostro Paese, se tutte le nuove regole di Bruxelles dovessero entrare in vigore, si ridurrebbe del 70% e diventerebbe tanto piccolo da essere impraticabile per i 12mila pescherecci italiani. A lanciare l’allarme è stata la Flai Cgil in una iniziativa dedicata al tema che è stata l’ennesima tappa di una battaglia che il sindacato di categoria sta portando avanti da tempo.
I riflettori del centro congressi Cavour a Roma si sono accesi sulla ricerca della Flai Cgil ‘La pesca italiana nell’uso dello spazio marittimo, scenari futuri e riflessi socioeconomici’, curata dal professor Andaloro (leggi QUI). Ne hanno discusso insieme una pluralità di soggetti interessata dal destino della pesca, da Federpesca a Legacoop Agroalimentare, da Confcooperative FedAgriPesca, ad Agci, Etf, il Wwf e anche il governo, rappresentato da La Pietra, sottosegretario alle politiche agricole, alla sovranità alimentare e alle foreste.
“Una concertazione, nel senso nobile del termine, con l’obiettivo di salvaguardare un settore antico come l’uomo – scrive la Flai in una nota –. Eppure avvolto da nubi minacciose, fra restrizione degli spazi marittimi, installazione di parchi eolici offshore che costringeranno i pescatori a circumnavigarli con un incremento di tempo, costi per la navigazione e ore di lavoro, stravolgimenti climatici che hanno portato anche all’arrivo di specie aliene, inquinamento e pesca illegale. Tutti fattori negativi a cui va aggiunta l’endemica carenza di ammortizzatori sociali per chi fa della pesca il proprio mezzo di sostentamento. Invece – si legge nella nota del sindacato – la pesca italiana andrebbe incentivata sulla base dei parametri della sostenibilità, per ridurre la dipendenza dall’estero e avviarsi all’auspicata, ma così sempre lontana, autonomia alimentare nel consumo ittico del Paese”.
Oggi, per dare solo un dato, dalle migliaia di chilometri di costa e mare che circondano il nostro Paese arriva appena il 27% del pescato che si consuma sulle nostre tavole. Un paradosso se si pensa che gli italiani, in media, mangiano 25 chilogrammi a testa di pesce, un dato al di sopra di quello europeo. Eppure dal 2010 a oggi il pescato che arriva dalle imbarcazioni italiane si è ridotto del 16,2% e la nostra flotta ha perso il 20% degli operatori.
Un andamento che Antonio Pucillo, capo dipartimento pesca per la Flai Cgil, spiega, nell’introduzione alla pubblicazione della ricerca, con le novità imposte dalle scelte di politica europea: “riduzione delle giornate di pesca, chiusure di aree marine per la conservazione e il ripopolamento, restrizioni all’attività di pesca, modifiche degli attrezzi e altro hanno minato la produttività delle imprese, causato l’abbandono dell’attività di pesca, con inevitabili ripercussioni occupazionali e sociali”. Se ricercare la sostenibilità e salvaguardare la risorsa ittica è l’obiettivo virtuoso dichiarato a Bruxelles, resta alto il rischio che, forzando alcune decisioni, si metta in ginocchio una intera filiera.
“Tra le misure più controproducenti – scrive Pucillo – ricordiamo quella sul disarmo delle imbarcazioni. Un invito eccessivamente ghiotto per chi non vedeva più alcun futuro in un settore così penalizzato. Un vortice che ha trascinato con sé anche l’indotto che orbita intorno alla gestione di questa attività. Da quella portuale, alla distribuzione e commercializzazione del prodotto, per non parlare del turismo e della ristorazione. Effetti importanti per le piccole comunità costiere o isolane, dove la pesca, insieme all’agricoltura, sono le uniche fonti di reddito. Con il tempo, grazie al turismo e alla ristorazione, queste realtà basate sull’economia del mare sono cresciute trasformandosi in ambite mete di escursioni dove storia, tradizione e buon cibo sono diventati il punto di forza. Oggi questa condizione sta cambiando velocemente. Il numero delle imbarcazioni da pesca scende costantemente da un decennio. La stessa cosa accade per gli occupati e per il fatturato. Idem per quanto riguarda la quantità di prodotto che rifornisce i nostri mercati, e la risorsa nel Mediterraneo stenta a recuperare. Ovviamente questa condizione sfugge alle persone che continuano ad acquistare nei punti vendita e nei ristoranti, inconsapevoli che buona parte del prodotto è importata oppure proviene da allevamenti”.
Il pericolo di deprimere definitivamente il settore è dietro l’angolo, minato dalla definizione delle ZEE (zona economica esclusiva) nel Mediterraneo, dalla richiesta europea di individuare ulteriori aree marine protette entro il 2030 e vietare la pesca a strascico nelle Aree Natura 2000, dalla possibilità di impedire la pesca a profondità maggiori di 600/800 metri e dalle decine di domande per l’installazione di parchi eolici offshore che rappresentano altrettante richieste di rinuncia agli spazi marini dediti alla pesca. Di fatto su questi passaggi riflette la ricerca pubblicata dalla Flai. In sintesi, scrive Pucillo, il cuore del problema è “evitare che lo spazio di cui dispone oggi la nostra flotta possa essere cancellato, fagocitato dalle nuove necessità”.
“Noi crediamo che invece una alternativa sia possibile e che la pesca abbia un futuro. Un futuro fatto di nuove tecnologie, di maggiore selettività nelle catture, di diversificazione delle attività, di ricerca, formazione e sostegno socioeconomico che aiuti questa transizione. Vanno individuate e quantificate tutte le fonti che determinano la sofferenza della risorsa, inquinamento, cambiamenti climatici, specie aliene, pesca illegale, solo per dirne alcune, perché siamo ancora convinti che i pescatori non siano i soli colpevoli dei danni ambientali. Il Mediterraneo è grande e va salvaguardato, c’è spazio per tutti”.