Fare convivere il lavoro con l’ambiente. È questa la sfida che il mondo sindacale sta affrontando in tutti i settori, facendo i conti con le esigenze della transizione verde. La questione si pone anche per la pesca: l’incremento della produzione rinnovabile per contrastare il cambiamento climatico, con l’installazione di parchi eolici offshore, può creare impatti negativi sia sull’ambiente marino che sull’occupazione.

“Negli ultimi anni le rinnovabili offshore hanno ricevuto un’accelerazione sotto la spinta della politica energetica dell’Unione europea che ha molto puntato su di esse implementandone anche il supporto finanziario – si legge nella ricerca ‘Sostenibilità energetica e sostenibilità sociale ed economica della pesca’ commissionato dalla Flai Cgil, condotta dal biologo marino Franco Andaloro e presentata a Roma -. Le fattorie eoliche sono quelle che hanno avuto una maggiore spinta, tanto che in Italia in pochi anni sono state raggiunte 93 richieste al ministero dell’Ambiente di aree per la realizzazione di questi impianti offshore e 139 sono state le richieste di connessione a Terna”.

Dall’analisi emerge che gli sviluppatori hanno basato la scelta delle aree solo sui criteri della massima efficienza energetica e di fattibilità tecnica. Sono stati gettonati i mari più ventosi, ignorando però le interazioni con le attività di pesca e senza considerare gli effetti che potrebbero avere sull’ambiente molti impianti vicini tra loro.

“Non si parla di una singola pala eolica che occupa spazio e impedisce che la pesca in mare – spiega Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil -. Queste piattaforme sono enormi, si trovano per 18 metri sotto il livello del mare e per 15 metri sopra. Oscillano continuamente muovendo una massa d’acqua importante dove sono installate. I biologici concordano nel dire che non si conoscono gli impatti sulla risorsa. I pesci potranno fuggire verso la costa o verso il largo, o ci potranno essere anche altre ricadute. Poi ci sono i cavi di ancoraggio delle piattaforme e quelli che portano a terra l’energia prodotta, lunghi 12-15 chilometri: in quelle zone la pesca è interdetta”.

La ricerca individua quali sono le aree critiche, Sicilia e Sardegna, Mediterraneo centrale e anche alcune zone dell’Adriatico. Spesso le fattorie saranno installate nelle zone più pescose, che sono appannaggio del lavoro e dei pescatori, per le quali manca un governo del processo, da parte delle istituzioni europee e nazionali.

“Nel concedere le autorizzazioni si guarda solo ad alcuni parametri, primo tra tutti la ventosità, ma non si tiene conto se la zona è di interesse dei pescatori - prosegue Mininni -. Come sindacato abbiamo colto la grande sfida della transizione, che per noi è fondamentale, ma dobbiamo anche difendere il lavoro. L’energia eolica rifiuta e supera quella fossile, non possiamo fermarla, ma è necessario che ci sia un processo partecipativo e di condivisione delle decisioni e una regia che deve affrire alla direzione generale della pesca del nostro Ministero. Noi abbiamo anche aperto un dialogo con le imprese che stanno chiedendo le autorizzazioni e che costruiranno i grandi impianti eolici in mare”.

“Non dobbiamo dimenticare che la pesca, mestiere antichissimo, soffre da sempre di un’esagerata marginalità – conclude Mininni -. Gli addetti del settore lavorano tanto in condizioni non facili per guadagnare poco o nulla, non hanno ammortizzatori sociali e sono privi perfino di adeguate tutele sulla sicurezza. In queste condizioni va da sé che la pesca non sia attrattiva per le nuove generazioni e sempre più insostenibile per le vecchie”.