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C’è voluto più di un anno e mezzo di trattative per arrivare alla definizione della bozza di direttiva che, varata nella notte tra il 6 e il 7 giugno scorsi, ora è stata approvata da Coreper, il comitato dei rappresentanti permanenti che raccoglie tutti gli Stati membri ed è quindi pronta per essere votata dal Parlamento europeo. L’iter legislativo si dovrebbe quindi concludere entro l’estate anche perché la Francia di Macron sta spingendo molto in quella direzione perché vuole chiudere il periodo di presidenza europea con un risultato positivo e definitivo contro la giungla contrattuale e il relativo dumping salariale.
In Italia il dibattito va ancora a rilento ed è molto influenzato dalle esigenze elettorali dei diversi schieramenti (da sempre contrari Salvini e Meloni). Anche nell’ambito sindacale il confronto vede posizioni diverse, con la Cisl molto più scettica delle altre due confederazioni. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ne ha parlato di recente in una intervista al Tg2 Post. Per Landini, il salario minimo può essere uno strumento da regolamentare e in ogni caso l’obiettivo principale di qualsiasi intervento dovrà essere quello di combattere la precarietà e il lavoro povero che hanno portato la media dei salari italiani all’ultimo posto delle graduatorie europee.
“Oggi in Italia – non si stanca mai di dirlo il segretario generale – si può essere poveri anche lavorando”. È necessario dare valore generale ai contratti ed estendere a tutti i lavoratori i diritti di base, a prescindere dalle forme contrattuali e dalla collocazione nel mondo produttivo. Per Landini “sarà importante recepire anche in Italia la direttiva europea e arrivare finalmente a una legge sulla rappresentanza che cancelli i contratti pirata”. Ma non è solo questione di salari poveri e di contratti precari. È necessario, per il segretario generale della Cgil, avviare subito una grande campagna per aumentare tutti i salari e le pensioni che oggi sono anche messi a dura prova dall’inflazione galoppante.
Sempre per quanto riguarda la Cgil, sul salario minino si è espressa di recente la segretaria confederale Francesca Re David che ne ha parlato in una intervista al Corriere della Sera che abbiamo rilanciato sul nostro sito. “Occorre – ha spiegato la segretaria confederale – rinnovare i contratti collettivi nazionali e recepire la direttiva europea sul salario minimo da definire attraverso il trattamento economico complessivo dei contratti nazionali di lavoro dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Infine, è fondamentale una legislazione che sostenga la contrattazione”.
Sempre sulla direttiva il giudizio del responsabile delle politiche internazionali della Cgil, Salvatore Marra, secondo il quale il vero nodo del lungo negoziato europeo sul salario minimo è stato il riferimento alla contrattazione. Presto ci si è resi conto che sarebbe stato un errore partire dalla definizione di un valore orario (nove euro). Si deve partire invece dai risultati della contrattazione e da quelli definire il riferimento per il salario minimo. Nel dibattito sulla Direttiva si sono fatti passi avanti in questo senso perché si valorizza la contrattazione collettiva che diventa la vera fonte regolatrice”. E oltre al riconoscimento e alla valorizzazione della contrattazione, l’approvazione di una Direttiva europea in questa materia, potrebbe avere effetti indiretti positivi. “Si tratta di un processo – dice ancora Marra – che favorisce la lotta al dumping salariale e alla diffusione dei contratti pirata attraverso il rafforzamento degli schemi della contrattazione. Un altro elemento positivo della Direttiva riguarda l’impostazione di fondo: il legislatore non interviene per decreto ma sulla base di una consultazione effettiva con le parti sociali”.
Ma che dice la Direttiva?
Ritornando ai contenuti della Direttiva è bene fare chiarezza sui suoi obiettivi di fondo. Per prima cosa – come chiarisce una nota della Cgil nazionale - non si tratta di un “salario minimo europeo”, ma delle modalità e dei criteri attraverso i quali si potrebbe introdurre - mediante la contrattazione collettiva - nei singoli Stati membri. La bozza di direttiva va sicuramente nel senso che la Cgil ha non solo auspicato, ma per il quale si è impegnata straordinariamente anche dentro la Confederazione europea dei sindacati, al fine di realizzare uno dei principi del Pilastro europeo dei diritti sociali: il diritto a un salario dignitoso e alla contrattazione collettiva in tutti i Paesi dell’Unione europea. In particolare tre sono gli elementi evidentemente positivi di questa direttiva: il riconoscimento formale e l'invito al rafforzamento della contrattazione collettiva e il ruolo dei sindacati in ogni passaggio, anche rispetto all’individuazione di livelli e criteri per un eventuale salario minimo; la clausola di "non regressione" garantisce che la direttiva non venga sfruttata per peggiorare le condizioni in alcuni paesi; l'applicazione a tutte le categorie di lavoratori, con l'obiettivo proprio di estendere la copertura della contrattazione collettiva a chi oggi ne è escluso.
"Senza dubbio infatti - si legge nella nota della Cgil - dopo anni di austerità e attacchi senza precedenti alla contrattazione collettiva, si afferma finalmente per legge che nei Paesi dell’Ue almeno l’80 per cento della forza lavoro deve essere coinvolta nella contrattazione collettiva e si impone agli Stati sotto questa soglia di chiedere alle parti sociali nazionali la redazione di piani nazionali per il raggiungimento di questo target".
Il riconoscimento dei sindacati
Il coinvolgimento delle parti sociali a ogni livello decisionale è dunque l’elemento che – già di per sé - può disegnare finalmente l’avvio del ragionamento su un vero e proprio nuovo modello di Europa sociale. In sintesi, le misure contenute nella bozza di direttiva sono: Il concetto chiave su cui è stata basata è “l’adeguatezza del salario minimo legale ai fini del raggiungimento di condizioni di vita e di lavoro dignitose; La direttiva non impone il salario minimo obbligatorio a quei paesi che determinano il salario attraverso il contratto collettivo. La Direttiva indica agli Stati che adottano il salario minimo di adeguarlo ogni due anni secondo precisi criteri (ogni quattro anni per i Paesi che hanno già meccanismi automatici di indicizzazione)". Tra questi criteri: il potere d'acquisto dei salari minimi legali, tenendo conto del costo della vita; il livello generale dei salari e la loro distribuzione; il tasso di crescita dei salari, i livelli e lo sviluppo della produttività nazionale a lungo termine. Le parti sociali devono essere coinvolte nello stabilire e aggiornare il salario minimo. Viene affidato alle parti sociali la previsione di un piano di azioni per promuovere la contrattazione collettiva, se lo richiedono congiuntamente. Si conferma che la direttiva non pregiudica il pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali, “nonché il loro diritto di negoziare e concludere contratti collettivi" e che "l'applicazione della presente direttiva deve essere nel pieno rispetto del diritto alla contrattazione collettiva”.
Obiettivo: estendere la contrattazione
La contrattazione collettiva deve essere estesa e rafforzata. Nei Paesi in cui la soglia della contrattazione collettiva copre meno dell’80 per cento dei lavoratori, si devono avviare misure per promuovere la sua estensione – con misure concrete e un calendario programmato. L'accordo finale infatti chiarisce: “Il piano d'azione deve definire una tempistica chiara e misure concrete per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva, nel pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali”. Il piano d'azione è riesaminato regolarmente (almeno ogni cinque anni) e aggiornato se necessario. Il testo comprende inoltre esplicite disposizioni a sostegno dei diritti sindacali e tutela dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali che partecipano o desiderano partecipare alla contrattazione collettiva, assicurando tra l'altro che gli Stati membri adottino misure per tutelare l'esercizio del diritto alla contrattazione collettiva e proteggere i lavoratori e le rappresentanze sindacali che si impegnano, o desiderano impegnarsi, in attività collettive contrattazione, proprio rispetto a eventuali discriminazioni in relazione al proprio impiego.