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L’Italia deve recepire la Direttiva europea sul salario minimo e la contrattazione collettiva. Perché si tratta di un obbligo comunitario e inderogabile. Ma non lo sta facendo, anzi nemmeno ha iniziato il processo di recepimento la cui scadenza era fissata entro il 15 novembre.
Eppure nel nostro Paese è sempre più “evidente la necessità di una legge sulla misurazione della rappresentanza come anche di una legge sul salario minimo”. È quanto scrive il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, alla premier italiana Giorgia Meloni (e ministri competenti, e gruppi parlamentari) in una lettera inviata lo scorso 12 novembre. Una lettera che ha proprio lo scopo – leggiamo nel testo – di chiedere “una rapida definizione del percorso di trasposizione nel nostro ordinamento della Direttiva europea richiamando al pieno e preventivo coinvolgimento delle parti sociali”.
Shopping contrattuale: il caso Italia preoccupa
Landini segnala alcuni “nodi di debolezza strutturale del nostro sistema” che vanno affrontati. A cominciare dal numero “abnorme” di contratti collettivi nazionali: un “evidente elemento di anomalia del nostro sistema nel quadro europeo – si legge nella lettera della Cgil – dovuto alla patologica presenza di agenti negoziali privi di rappresentatività e da un contesto ordinamentale che consente lo shopping contrattuale”.
Questo dumping “indebolisce il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali più rappresentative”, perché “lascia libere le imprese di scegliere il contratto collettivo più conveniente”. Una situazione ormai di emergenza delle relazioni industriali italiane, alla quale si aggiunge “il ritardo nei rinnovi contrattuali, anch’esso abnorme rispetto alla media europea”, scrive sempre Landini a Meloni.
Oltre mille contratti: è dumping
“Nella lettera, evidenziamo alcuni aspetti su cui potrebbe concentrarsi l'applicazione della Direttiva Ue, come il tema della proliferazione contrattuale e della rappresentatività, in particolare la necessità di garantire un monitoraggio dei dati, che oggi risulta assolutamente insufficiente". È quanto spiega a Collettiva Nicola Marongiu, responsabile area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil.
Aggiunge Marongiu: "Ad oggi, i contratti depositati presso il Cnel sono 1.006, in crescita negli ultimi anni. Recentemente sono stati sottoscritti due nuovi contratti: quello di Confsal e Conflavoro PMI per il settore dell’edilizia e quello di Confsal e Confimi per il cosiddetto 'multi-manifatturiero'. Si tratta di contratti che nel loro complesso agiscono il dumping contrattuale”.
Manca una legge sull’efficacia erga omnes dei contratti
Ricordiamo che in Italia è ancora inattuato l’articolo 39 della Costituzione, che affronta il tema delle organizzazioni sindacali e dell’efficacia generale dei contratti collettivi. Se fosse attuato, la legge di attuazione dovrebbe prevedere i criteri per perimetrare in modo preciso l’ambito di applicazione di ciascun contratto collettivo. Come accade in altri Paesi europei (ad esempio Francia e Spagna), in ciascun settore ci sarebbe un solo ccnl con efficacia generale, cioè vincolante per tutte le imprese. Manca insomma una legge sull’efficacia generale del contratto collettivo.
Il boom delle sigle sindacali e i contratti pirata
Un’altra ragione che spiega il dumping contrattuale in Italia è invece dovuta alla proliferazione di sigle di cui parla Marongiu. Questo è l’elemento dirompente. Perché, finché le relazioni industriali si sono rette su un sistema compatto, imperniato sulle tre maggiori confederazioni (Cgil, Cisl e Uil), si è potuto sopperire alla mancata attuazione della Carta. Ma, soprattutto negli ultimi 10-15 anni, la frammentazione delle sigle sindacali e datoriali (di cui nessuno conosce la reale rappresentatività, ossia il numero di iscritti) ha portato alla moltiplicazione dei contratti siglati, spesso veri e propri contratti pirata.
Il ddl delega sul lavoro peggiora la situazione
Recepire e applicare la Direttiva Ue potrebbe essere l’occasione per sistemare le cose. Il Governo Meloni non solo non lo sta facendo, ma con il collegato lavoro (il ddl delega approvato alla Camera) va anche nella direzione opposta. Da un lato – scrive Landini alla premier – indebolisce “l’autorità salariale del ccnl” introducendo “incentivi tutti rivolti alla contrattazione decentrata e flex benefit”. Dall’altro – prosegue il numero uno della Cgil – “sostituisce il consolidato criterio selettivo della ‘maggior rappresentatività comparata’ con il criterio del ‘contratto maggiormente applicato’, che, in assenza di una legge in materia di rappresentanza e di contrattazione, può tradursi in un incentivo alle imprese ad applicare i ccnl più convenienti”.
Un danno enorme
Se la norma passasse, sarebbe un danno enorme, spiega ancora Nicola Marongiu: “Stabilire il 'contratto maggiormente applicato' significa attribuire legittimità a un contratto sulla base della sua diffusione piuttosto che sul peso delle organizzazioni firmatarie. Questo cambiamento potrebbe legittimare contratti firmati da organizzazioni prive di reale rappresentatività, rendendoli legittimamente applicabili in virtù del numero di soggetti che li adottano".
Contrattazione sotto attacco
Insomma, anche se in apparenza potrebbe non sembrare, visto che l’Italia ha un alto tasso di copertura contrattuale (superiore all’ 80%), nel nostro Paese la contrattazione collettiva sta subendo un attacco pesante. E il sintomo è (anche) che gli stipendi non crescono quanto dovrebbero. Scrive Landini al governo: “Sono proprio questi dati, in apparenza rassicuranti, ad imporre allo Stato italiano di chiarire alle istituzioni europee le ragioni per cui in Italia altissimi tassi di copertura contrattuale si accompagnano a dinamiche salariali depressive. Si tratta di un’anomalia assoluta nel quadro europeo”.
L’importanza del salario minimo legale
Infine, Landini osserva che “è vero che la Direttiva non impone l’adozione del salario minimo legale, ma per tutto quanto già evidenziato riteniamo strumento indispensabile a sostegno della contrattazione collettiva la definizione di un minimo salariale inderogabile come misura coerente con le finalità perseguite dalla direttiva stessa”.
Intervenire sulla rappresentanza per “salvare” i salari
"Certamente esiste una relazione tra la depressione salariale e la frammentazione contrattuale – osserva ancora Nicola Marongiu –. È vero che i contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil coprono la maggior parte dei lavoratori. Tuttavia, nei medesimi settori coesistono contratti collettivi che prevedono minimi salariali differenti e, in molti casi, introducono norme peggiorative su vari istituti, soprattutto tramite accordi di prossimità. Questa situazione tende a trascinare verso il basso i livelli salariali”.
"Come abbiamo evidenziato nella nostra lettera – prosegue Marongiu –, è necessario intervenire sulla rappresentanza: gli accordi interconfederali, per quanto importanti, non garantiscono il cosiddetto effetto 'erga omnes'. Riteniamo che definire un minimo salariale sotto il quale la contrattazione non possa scendere sarebbe utile anche per regolare la contrattazione collettiva”.
Le norme europee vanno attuate
"Questi sono aspetti sui quali è necessario intervenire; non possiamo limitarci alle iniziative intraprese l'anno scorso, come il lavoro del Cnel, che non ha avuto la nostra approvazione. La Direttiva Ue deve essere recepita; il ritardo attuale è inaccettabile e rende il governo inadempiente degli obblighi europei. Nei prossimi periodi dovremo recepire altre direttive importanti, come quella sul lavoro su piattaforma. Non vorremmo che, a partire dalla Direttiva sui salari, il governo italiano mostrasse un disimpegno nell’attuare le norme europee, norme che sono fondamentali anche nel nostro ordinamento", conclude Marongiu.