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Per il vicepremier Di Maio è ormai diventato un provvedimento “di bandiera”, oltre che l’ennesima occasione di confronto-scontro con gli alleati di governo della Lega. I Cinque stelle puntano a una rapida approvazione del loro disegno di legge sul salario minimo (ossia il ddl 658, che vede come primo firmatario la senatrice Nunzia Catalfo), e per questo hanno avviato un dialogo con i sindacati, ponendo però come base di discussione proprio il provvedimento da loro presentato. Un dialogo che vede oggi (lunedì 6 maggio) il secondo incontro di carattere tecnico, dopo quello iniziale del 20 marzo scorso, considerato interlocutorio dai sindacati. L’appuntamento è alle ore 15 a Roma, presso il ministero del Lavoro (in via Veneto), per la Cgil partecipano i segretari confederali Tania Scacchetti e Ivana Galli.
“Il salario minimo si faccia a partire dai contratti”, ha ribadito mercoledì 1° maggio il segretario generale Cgil Maurizio Landini, parlando a margine della manifestazione di Bologna. “La nostra proposta è molto precisa”, ha spiegato: “I contratti nazionali di lavoro diventino il riferimento per tutte le forme di lavoro, dove il salario non è solo quello orario, ma è il trattamento economico complessivo previsto dai contratti che, accanto al salario orario, prevedono anche le maggiorazioni, le ferie, la malattia, gli infortuni, tutto ciò che sono diritti e tutele complessivi”. Landini ha poi invitato il governo a fare “un provvedimento che dica che i contratti nazionali hanno validità erga omnes, e che quindi coprono tutte le forme di lavoro”. In questo senso, ha concluso, si rende necessaria anche “una norma che dica che i contratti validi sono soltanto quelli firmati dalle organizzazioni rappresentative sia degli imprenditori sia dei sindacati, non i contratti pirata che sono serviti ad abbassare i diritti”.
La proposta dei Cinque stelle stabilisce una paga oraria minima di 9 euro al lordo degli oneri contributivi e previdenziali: il trattamento economico sarebbe di volta in volta adeguato nel tempo, e verrebbe applicato a tutti i contratti di lavoro subordinato e parasubordinato, comprese le collaborazioni coordinate e continuative. La Cgil, pur evidenziando nel testo alcuni elementi positivi (come il riconoscimento della contrattazione collettiva svolta da soggetti rappresentativi come luogo principe nella fissazione della retribuzione, oppure il riferimento, in caso di pluralità di contratti collettivi esistenti, ossia in caso di rischio di dumping, al fatto che la retribuzione proporzionata e sufficiente è quella definita dai contratti sottoscritti da organizzazioni rappresentative), considera però sbagliata e da modificare l’indicazione di una cifra fissa, ossia la paga oraria minima di 9 euro lordi.
Sul tema va segnalato anche l’attivismo del Partito democratico. In Parlamento è depositato il ddl 310 (proposto dal senatore Mauro Laus), che però sembra essere ormai superato dal ddl 1132, (presentato a metà marzo dal senatore Nannicini). Questa nuova e più articolata proposta del Pd (che però non ha ancora ritirato formalmente il disegno di legge precedente) interviene sulla definizione di salario minimo, ma anche sulla rappresentanza, sulla rappresentatività e sulla partecipazione. La Cgil considera positivo il fatto che il ddl non abbia l’indicazione di una cifra fissa per il salario minimo legale, visto che il riferimento è ai trattamenti minimi tabellari (non complessivo però) stabiliti dai ccnl sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Ma anche questo testo comprende alcune parti problematiche (come l’istituzione di un salario minimo di garanzia negli ambiti non coperti dai contratti collettivi, che rischia di agevolare l’uscita dai ccnl come possibilità alternativa ai minimi dei ccnl, oppure l’affidamento a una Commissione paritetica istituita presso il Cnel di moltissimi compiti, che sarebbero così sottratti all’autonomia negoziale).
Cgil, Cisl e Uil non vedono con favore l’introduzione di una legge sul salario minimo. E hanno avuto occasione di esprimere tutte le proprie perplessità nell’audizione in commissione Lavoro al Senato che si è tenuta il 12 marzo scorso. “Una norma di legge che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti deve innanzitutto stabilire il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro”, si legge nella memoria consegnata ai parlamentari. Il motivo di questa preoccupazione è chiaro: l’introduzione del salario minimo “potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti, rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele dei lavoratori. Un rischio che si fa maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e medie imprese presenti nel tessuto economico italiano”. Insomma: un numero elevato di aziende potrebbe cogliere quest’occasione per disapplicare il contratto di riferimento e adottare il salario minimo, rimanendo in questo modo perfettamente in un ambito di legalità. Ciò comporterebbe per i sindacati confederali “un fortissimo disincentivo al rinnovo di alcuni contratti nazionali relativi a settori ad alta intensità lavorativa, a basso valore aggiunto e a forte compressione dei costi”.
Naturalmente nel nostro Paese una questione salariale esiste, ma per aggredirla occorre affrontare il tema partendo dalla realtà specifica italiana che, a differenza di altri paesi europei, garantisce ancora una fortissima copertura dei contratti collettivi di lavoro. “I campi di applicazione di tutti i ccnl ci permettono di affermare che ogni attività economica e ogni lavoratore subordinato è coperto oggi da un ccnl di riferimento, e che anche i lavoratori a termine e in somministrazione godono delle stesse tutele retributive degli altri lavoratori subordinati”, si legge nella memoria. La vera questione, semmai, è costituita “dalla proliferazione contrattuale, la diffusione di contratti poco e per nulla rappresentativi e in dumping (anche dal punto di vista retributivo) rispetto ai contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative. Questo è il vero problema, insieme alla evasione contrattuale e al crescente sommerso in molte attività, che affligge la regolazione salariale in Italia”.
Le quote di lavoratori che le statistiche e gli studi valutano come non coperti dalla contrattazione salariale nazionale (10-15 per cento della popolazione lavorativa), fanno notare le tre confederazioni, sono quindi “legate all’eccessiva diffusione del lavoro irregolare, di forme di sottoccupazione (basti pensare al fenomeno delle false cooperative che con regolamenti aziendali violano i ccnl o delle false partite Iva che la recente riforma fiscale ‘flat tax’ porterà a diffondersi) e di part-time involontari che l’introduzione del salario minimo legale non porterà a mitigare”.
Importante dunque l’aspetto “repressivo”: per le tre sigle è necessario mettere in atto “controlli più puntuali e interventi correttivi per ridurre le fasce di sfruttamento, agendo contemporaneamente contro il fenomeno dell’evasione contrattuale”. E a questo proposito ribadiscono la richiesta di implementare gli investimenti e il numero degli ispettori, che oggi sono circa 4 mila a fronte di 1,8 milioni di aziende private attive nel Paese. “Ogni ispettore – notano – dovrebbe controllare mediamente 456 aziende in un anno”. Un rapporto “che rende impossibile fare controlli a tappeto”.
Per Cgil, Cisl e Uil, dunque, la strada da intraprendere dovrebbe essere un’altra: bisogna cioè partire dall’attribuire valore legale ai trattamenti economici già previsti dai contratti nazionali di lavoro; in questo modo se ne “può aumentare l’efficacia e consentire l’adozione di adeguate sanzioni nei confronti di chiunque non li rispetti”.
Altro nodo importante è quello che riguarda la natura del salario e della retribuzione. Un salario minimo legale così concepito difficilmente riuscirebbe a garantire quel “trattamento economico complessivo” che la contrattazione collettiva ha ormai sancito in ogni comparto lavorativo. Quando sono inserite in un contratto, infatti, le retribuzioni dei lavoratori non sono costituite solo dai minimi orari, ma sono composte da più voci retributive: tredicesima e in alcuni casi quattordicesima mensilità, livelli di inquadramento, maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, e altre voci e premi retributivi. Non solo: in un contratto a essere regolato non è solo il salario, ma anche tutta una serie di garanzie normative conquistate negli anni: tutele per malattia, maternità e infortuni superiori a quelle previste dalla legge; welfare previdenziale e sanitario. In sostanza: l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare.