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Il Tribunale di Palermo è nuovamente intervenuto nel complesso contenzioso che contrappone i rider alle piattaforme del food delivery per chiarire questa volta che l’imposizione del controverso accordo Ugl Rider come condizione per continuare a lavorare costituisce una grave forma di discriminazione sindacale.
In quella che ormai può definirsi una vera e propria offensiva della Cgil per la conquista dei diritti nella nuova economia digitale, le società della gig economy hanno incassato un nuovo duro colpo che le obbliga a prendere consapevolezza della necessità di confrontarsi con le associazioni rappresentative dei rider senza potere con disinvoltura imporre condizioni di lavoro e forme di rappresentanza collettiva a loro piacimento.
Il caso è emblematico. Nel corso delle trattative promosse dal ministero del Lavoro per la stipula del primo contratto collettivo rider nelle quali era convocata la Cgil assieme alle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative (unitamente ad alcune Union storiche di rider), Assodelivery, l’associazione di categoria che raggruppa le multinazionali del settore, sebbene presente al tavolo di negoziazione, avviava una trattativa segreta con l’Ugl che si concludeva a pochi giorni dalla fine del periodo transitorio, che avrebbe determinato l’applicazione delle condizioni economiche dei contratti collettivi dei settori affini, con la firma di un contratto collettivo che precarizzava il lavoro sancendo il cottimo.
Il Ccnl dichiarava la natura autonoma del rapporto e impediva di potere applicare la contrattazione rappresentativa dei settori affini che avrebbe, viceversa, consentito sensibili migliori condizioni di lavoro. Il contratto collettivo aveva, quindi, immediatamente determinato una pioggia di critiche non solo a livello nazionale, dando luogo ad una serie di ricorsi promossi da Filcams, Nidil e Filt per condotta antisindacale e a forti prese di posizione da parte dello stesso ministero del Lavoro, ma anche a livello internazionale culminate con la clamorosa decisione del Comitato economico e sociale europeo (Cese) di espellere dal proprio consesso il rappresentante dell’Ugl.
Nonostante tale forte opposizione, probabilmente unica nel panorama sindacale, le associazioni aderenti a Assodelivery hanno imposto unilateralmente ai propri rider di accettare il controverso accordo collettivo risolvendo tutti i contratti in corso e contestualmente condizionando la prosecuzione del rapporto di lavoro all’accettazione della nuova regolamentazione.
Molti rider, tra i quali Marco, che da tempo era impegnato all’interno della Cgil nella lotta per la tutela della salute dei suoi compagni durante il periodo della pandemia, si sono rifiutati di accettare tale imposizione che ritenevano contraria alla propria idea di sindacato e di lotta per migliorare le condizioni di lavoro. La consapevole scelta del rider aveva determinato, quindi, l’inevitabile perdita della possibilità di lavorare.
Con una innovativa decisione promossa da Filcams, Nidil e Filt Cgil Palermo su mandato del lavoratore, il Tribunale ha dichiarato che la decisione dell’azienda di risolvere il contratto di lavoro per imporre una contrattazione stipulata da un sindacato dal quale il rider non si sentiva rappresentato era contraria a correttezza e buona fede e determinava una prassi negoziale discriminatoria.
La finalità perseguita dall’azienda era infatti illecita dal momento che, stabilisce il giudice palermitano, “la clausola di recesso non può essere interpretata come di recedibilità ad nutum (ovverosia in termini di mera discrezionalità) e neppure può ritenersi giustificata dalla volontà aziendale di imporre una contrattazione collettiva contraria alla forma di rappresentanza del lavoratore.
Il richiamo ad una valida giustificazione del recesso effettuato dal Tribunale palermitano anche per i rapporti di lavoro etero organizzati apre prospettive nuove per la tutela della stabilità del rapporto di lavoro anche all’interno delle piattaforme. È il secondo provvedimento che in meno di quattro mesi condanna le aziende dell’economia digitale per discriminazione sindacale ed è il terzo, in ordine di tempo, che censura tali aziende per condotte che incidono sulla libertà sindacale rendendo quindi più che mai evidente la necessità di assicurare anche nello spazio virtuale della “piattaforma” il rispetto delle regole democratiche di confronto dialettico.
È del tutto chiaro, ormai, che il mondo digitale costituisce un modello economico che rapidamente si sta imponendo e che tale sviluppo richiede un contestuale pieno riconoscimento dei fondamentali diritti dei lavoratori affinché anche in questo nuovo contesto venga assicurato un lavoro dignitoso tramite un genuino confronto con le associazioni sindacali rappresentative.