Negli ultimi vent’anni l’affermazione del neoliberismo ha contraddistinto le modifiche alle normative sul lavoro. Si sono assottigliati i diritti di lavoratori e lavoratrici, rendendoli più deboli e più soli. E come effetto si è avuto anche quello di indebolire i sindacati.

Lorenzo Zoppoli, docente di Diritto del lavoro all’Università Federico II di Napoli, sostiene che i referendum promossi dalla Cgil (sono circa 900 mila le firme fin qui raccolte), serviranno non solo a restituire dignità e sicurezza, ma anche a ridurre la diversità di potere tra dipendenti e datori di lavoro, riconsegnando, indirettamente, anche forza alla contrattazione e ai sindacati.

I quattro referendum della Cgil riguardano la normativa sui licenziamenti, i contratti a termine, gli appalti e la sicurezza. Un unico filo conduttore li unisce, quello della dignità.

Sì, la garanzia del non essere licenziati arbitrariamente è chiaramente connessa al tema della dignità, perché se da un giorno all'altro il datore di lavoro mi può mandar via senza alcuna motivazione, senza alcuna ragione dimostrabile legata al mio comportamento di lavoratore o alle esigenze dell'impresa, ne va della mia dignità di lavoratore, di persona. Stessa cosa vale per quanto riguarda l'assunzione a termine, non tanto perché essere assunti a termine sia contrario alla dignità del lavoratore, infatti si può benissimo essere, per un periodo, assunti a termine; però se il contratto a termine può essere stipulato senza alcun limite, senza alcuna ragione oggettiva, se il lavoratore sa già dall'inizio che in quell'impresa starà poco, è chiaro che il suo modo di stare in azienda sarà molto dimesso, e quindi ne va anche qui della dignità. Ci deve essere una ragione o comunque un limite nelle assunzioni a termine, altrimenti la dignità viene compromessa.

Cosa possiamo dire su quelli riguardanti gli appalti e la sicurezza sul lavoro?

Stesso ragionamento vale per la catena degli appalti. Se si possono dare appalti e subappalti per lavorazioni di ogni tipo, senza avere la responsabilità della piena parità di trattamento dei lavoratori che vengono assunti dall'impresa appaltatrice, e soprattutto senza avere una piena responsabilità in ordine al rispetto delle norme sulla sicurezza, si mette a repentaglio l'integrità psicofisica dei lavoratori. A quest’ultimo riguardo non c’è nemmeno bisogno di argomentazioni sofisticate, le cronache di tutti i giorni dimostrano che i sub-appalti sono pericolosi per la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, quindi inevitabilmente per la loro dignità. E le innovazioni messe in campo di recente dal Governo Meloni per non restare inerti dinanzi ai fatti gravissimi degli ultimi mesi non mutano granché la disciplina generale della materia.

I rapporti di lavoro, dal punto di vista del potere, sono assai sperequati a favore – ovviamente – dei datori di lavoro: i referendum possono servire a un riequilibrio di questa sproporzione?

Un riequilibrio di potere tra datore di lavoro e lavoratore è la ragione principale per cui è nato e si è sviluppato il moderno diritto del lavoro, anche se non sempre viene ricordato. Questa caratteristica della legislazione italiana ha ormai profonde radici costituzionali, non solo nazionali, e viene a volte un po' occultata. Ma per chi conosce un minimo la storia del diritto del lavoro è evidente che essa è permeata da questa ragione di fondo: riequilibrare una relazione che è fondata su un contratto in cui si garantisce la parità formale dei due contraenti, ma che in realtà, nella sostanza, si svolge quasi sempre tra parti che non hanno lo stesso potere contrattuale. È indubbio che normalmente, oggi addirittura più di trent’anni fa, il datore di lavoro ha un potere contrattuale maggiore rispetto al lavoratore. Per riequilibrare questo potere il diritto di lavoro ha sviluppato tante tecniche.

Quali sono le principali?

Direi che sono due: la tutela contro l'incertezza sul posto di lavoro - e dell'incertezza fa parte la possibilità di essere licenziati arbitrariamente - e la possibilità per il lavoratore di organizzarsi collettivamente, quindi iscriversi a un sindacato, svolgere attività con il proprio sindacato, fare sciopero. È evidente che se non c’è una tutela adeguata ed effettiva contro il licenziamento arbitrario, è facile che il lavoratore non solo non riesca a far valere quel poco di potere individuale che ha, ma rinunci anche ad aderire a un sindacato e a svolgere azione collettiva: il suo potere, di conseguenza, viene ulteriormente ridotto. Non c'è dubbio che per i lavoratori dipendenti gran parte del potere reale che possono esercitare deriva dalla loro propensione, dalla loro facilità ad aggregarsi collettivamente. Era così all'origine della società industriale e lo è ancora oggi, anche se oggi, forse, le forme dell'organizzazione produttiva sempre più immateriale rendono l’aggregazione più difficile, ma non meno necessaria del passato.

I quattro referendum Cgil, quindi, sono molto utili…

L’esito positivo dei referendum può favorire un riequilibrio di potere, superando quel ridimensionamento della tutela contro i licenziamenti arbitrari che è stata una caratteristica del diritto del lavoro degli ultimi 15 anni, riducendo la precarietà nei rapporti a termine e responsabilizzando di più le imprese appaltanti. Danno implicitamente, quindi, un ruolo maggiore sia al singolo lavoratore, che è un po' più protetto, sia al sindacato cui il lavoratore ritiene di aderire.

Torno a un suo accenno: è da almeno un quindicennio – diceva – che le riforme della legislazione in materia di diritto del lavoro hanno il segno di ridurre lacci e lacciuoli alle imprese. 

Non c'è dubbio. Abbiamo alle spalle un ventennio di liberismo e post-liberismo in ascesa, che non è finito. D’altronde, purtroppo, il mondo è andato nel senso di un’economia di mercato fortemente concorrenziale, si sono affermate logiche sovrastatuali, le imprese forti sui mercati internazionali contano spesso più di tanti Stati. Giorgia Meloni, dicendo che non bisogna intralciare le imprese, non fa altro che ripetere un ritornello, un mantra di un’ideologia imperante, da questo punto di vista non dice nulla di nuovo. Anche se si barcamena tra diverse contraddizioni: per esempio le riforme avviate di recente - premierato e autonomia differenziata - non sono coerenti con una visione pienamente liberista, e il suo atteggiamento nei confronti dell’Europa, che spesso è stata dominata dall'ideologia della più piena concorrenza, non è coerente con il manifesto liberista. Quindi, Meloni è soltanto l'ultima arrivata a essere affascinata da quest’ideologia e non certo è la più brava a praticare il neoliberismo.

Ma dove affondano le radici del neoliberismo?

Purtroppo il neoliberismo affonda le sue radici almeno negli ultimi vent'anni dello sviluppo e delle culture dominanti nel mondo. E anche la sinistra italiana, a volte, ha avuto punte di debolezza nella reazione al liberismo. Si può invocare qualche attenuante: era piuttosto isolata, quindi era difficile che una parte politica di uno Stato non all'apice della sua forza avesse la capacità di opporsi a un fortissimo trend mondiale. Non c'è dubbio che, per esempio, la parentesi di Renzi è stata estremamente deleteria, in quanto il maggiore partito della sinistra (o suo erede) ha abbracciato pienamente l’ideologia liberista. E anche il diritto del lavoro, in quella fase, ha ridotto i vincoli, sebbene in maniera camuffata e distorta, come con il contratto a tutele crescenti o ‘catuc’, come lo chiamo io, che è “LA” invenzione di Renzi.

Torniamo quindi al Jobs Act…

Certamente, dentro il Jobs Act c'è il più drastico ridimensionamento delle tutele contro i licenziamenti. Ma la storia era già cominciata prima, con Monti e i governi di fine anni Novanta, che hanno introdotto nella legislazione del lavoro misure caratterizzate dal marchio ultra-liberista, dalla riduzione delle tutele e dal grande ‘scetticismo’ nei confronti del ruolo del sindacato, che è stato messo all’angolo e ha avuto difficoltà sempre maggiori a elaborare strategie contrattuali, partecipative o conflittuali, in grado di arginare quella cultura che apparentemente avrebbe dovuto liberare l'economia del paese. Al contrario l’Italia dagli anni Duemila, ma forse anche prima, è cresciuta meno, ha avuto politiche industriali meno efficaci, con i salari dei lavoratori e delle lavoratrici cresciuti assai meno degli altri Paesi europei, anzi proprio diminuiti.

Insomma, tutta questa ventata neoliberista non ha fatto bene ai lavoratori, ma nemmeno all'economia del Paese.

Mi permetta una semplice obiezione: il liberismo non ha mai fatto bene ai lavoratori. Forse nella prima rivoluzione industriale ha liberato tanta gente dalla servitù della gleba. Ma da quando il liberismo è diventato maturo, è strumento di imprese sempre più grandi e potenti, funzionale al potenziamento dei profitti, non certo al benessere dei lavoratori. Non voglio mettermi i panni dell’economista, ma la dinamica salariale italiana è lì a dimostrare cosa queste politiche significano per i lavoratori e le lavoratrici: a cominciare dell’esplosione del lavoro povero, delle discriminazioni per le donne e per i giovani, che sono le fasce più deboli sul mercato del lavoro, dalla crescita della povertà assoluta. Questo è l'esito eclatante, evidente, da nessuno negato, delle politiche liberiste degli ultimi vent'anni, che hanno puntato tutto sulla riduzione del costo del lavoro senza irrobustire il tessuto tecnologico e culturale del sistema economico italiano, anzi riducendo la potenza del sistema economico italiano. Oggi nel mondo ci sono sistemi economici assai più competitivi di quello italiano perché le economie più avanzate hanno investito su tutt’altro, non basandosi solo sulla riduzione del costo del lavoro. Penso che occorra cogliere l’occasione che arriva dalle nuove tecnologie e dall’intelligenza artificiale per restituire dignità al lavoro anche attraverso una nuova legislazione che lo tuteli di più e meglio.

Alcuni sostengono che la battaglia referendaria della Cgil sia di retroguardia. Cosa ne pensa?

Dissento totalmente, non perché sono sempre d'accordo sulla linea politica, prima ancora che sui referendum, della Cgil. Dissento perché queste affermazioni sono assolutamente organiche all’ideologia liberista. Oltre a puntare tutto sulla libertà di mercato e dell'impresa, sulla concorrenza più sfrenata, il liberismo ha sempre puntato sull'innovazione tecnologica. Ritengo, invece, che senz’altro le tecnologie, la formazione, un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese siano elementi importanti da non sottovalutare. E per fortuna riusciamo a essere ancora tra i Paesi che hanno un protagonismo sul piano del digitale, dell'intelligenza artificiale e della formazione. Però tutto questo deve essere sempre correlato ai rapporti di potere: se il lavoratore non è in grado di negoziare, di autotutelarsi, non ha sue rappresentanze forti, non sarà l’innovazione tecnologica a restituirgli dignità.

I quattro referendum, dunque, non sono strumenti vecchi…

Tutt’altro, possono invece far recuperare elementi di modernizzazione civilizzatrice in una fase in cui il mondo sembra voler tornare a dinamiche di violenza e barbarie inaccettabili. Tuttavia il referendum - qualunque referendum, specie quello di tipo abrogativo - non è lo strumento che da solo risolve tutti i problemi. Occorre intervenire in maniera più sofisticata sulla legislazione in materia di lavoro emersa in questi ultimi anni per tante ragioni, non ultima quella che la legislazione è stata interpretata e corretta da una copiosa giurisprudenza, anzitutto della Corte costituzionale. Ma il referendum è una grande occasione per avviare una risistemazione della legislazione in materia di lavoro che sia più favorevole alle lavoratrici, ai lavoratori e ai sindacati nel loro complesso.