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La scorsa settimana il Corriere della Sera ha pubblicato un’analisi sul peso dei sindacati. È una rilevazione ricavata dai dati di oltre 50 categorie. Dati “finora tenuti nel cassetto”, precisa il Corriere, ma figli di una misurazione che ha il suo criterio nel Testo unico sulla rappresentanza firmato dieci anni fa, nel 2014, da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria (e poi da tutte le altre sigle).
È quindi una “pesatura” dei sindacati italiani calcolata sulla base del numero degli iscritti, delle deleghe, e dei risultati nelle elezioni Rsu (le Rappresentanze sindacali unitarie). È banale dirlo, ma sono dati utili, per quanto confermino rapporti di forza già noti, perché consentono di fare chiarezza sulle relazioni industriali e sindacali in Italia in un momento molto delicato.
I dati: Cgil prima in 23 settori su 26
L’analisi conferma come la Cgil con le sue categorie sia il primo sindacato in 23 dei 26 settori esaminati, e in ben 11 superi il 50%: metalmeccanico (50,5%), gomma plastica (52%), ceramica (61,8%), coibentazioni termo acustiche (67,5%), legno (51,3%), cemento (50,9%), laterizi (50,9%), calzaturiero (55,3%), pelli (68,8%), noleggio autobus (74,4%), somministrazione lavoro (60,4%). Ma in altri settori le categorie della Cgil si avvicinano alla soglia del 50%: alimentare (47,4%), elettrico (40,2%), chimico (47,2%), turismo (46,5%).
Le altre sigle
La Cisl, invece, si distingue per la forte presenza nel settore pubblico e in Poste italiane (non inclusi, però, nell’elenco del Corriere), nei trasporti e nell’edilizia (nemmeno questo calcolato nell’analisi), mentre la Uil ottiene buoni piazzamenti in telecomunicazioni e occhialeria.
L'articolo sottolinea anche il ruolo delle sigle autonome e di base, con una rappresentanza molto ridotta in confronto ai sindacati confederali. Si tratta veramente di briciole. Sindacati come Ugl e Confsal non vanno oltre il 3% in pochi settori, ma in genere non superano l’1% o il 2%.
Far contare questo peso in una legge sulla rappresentanza
Il Corriere si chiede: cosa fare di questa situazione? E ricorda come, secondo il Testo unico sulla rappresentanza, i contratti nazionali stipulati da associazioni che rappresentano oltre il 50% dei lavoratori debbano essere considerati come contratti di riferimento per il settore. In tal caso, osserva sempre il Corriere, un contratto come quello di Confimi Confsal non avrebbe legittimità.
Il problema è che al momento nessuno sembra obbligato a rispettare alcunché. Le relazioni industriali e sindacali sono infiltrate da organizzazioni pirata, non rappresentative, che fanno spesso saltare il sistema. Lo scriviamo in modo molto rozzo (giuslavoristi e sindacalisti ci perdoneranno), ma se ora un’associazione di imprese e un sindacato, a prescindere da quanti iscritti hanno, firmano un contratto collettivo, quel contratto si può applicare.
Il dumping contrattuale e il Codice degli appalti
Come abbiamo scritto su Collettiva, l’Italia soffre di dumping contrattuale. Un vero e proprio shopping tra i contratti collettivi, più di mille, che consente ai datori di lavoro di scegliere quello che gli conviene di più. Questo perché non esiste una legge sull’efficacia generale del contratto collettivo (se esistesse si applicherebbe un solo ccnl in un determinato settore) e perché manca una legge sulla rappresentanza delle organizzazioni sindacali. L’articolo 39 della Costituzione è ancora inattuato. La situazione danneggia non solo la Cgil e i suoi iscritti e rappresentati, e la Cisl e la Uil, e tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani, ma anche il sistema della rappresentanza datoriale, dalla Confindustria in giù.
Secondo il Corriere, la questione, a lungo rimasta sottotraccia, sta emergendo nuovamente, come dimostra la discussione scatenata dalle modifiche di governo e maggioranza di destra-centro al Codice degli appalti. Una situazione che Collettiva ha illustrato nei giorni scorsi. Ci permettiamo quindi di autocitarci: “Tra le principali novità introdotte (nel Codice degli appalti, ndr) ci sono soprattutto interventi per scardinare il cosiddetto ‘contratto collettivo nazionale leader’, per aprire gli appalti pubblici a micro, piccole e medie imprese e permettere ‘ribassi’ mascherati, dato che le nuove norme erano di fatto più stringenti”.
Un gruppo significativo di associazioni d’impresa (Confindustria, Confcommercio, Legacoop, Confcooperative, Abi e Ania) ha sollevato obiezioni a queste modifiche attraverso una lettera indirizzata ai presidenti delle commissioni ambiente di Camera e Senato. I segretari di Cgil e Uil, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, si sono offerti per un confronto diretto con queste associazioni. Potrebbe essere l’occasione per riaprire una discussione più ampia.
Il Governo Meloni vuole legittimare il Far West dei contratti?
Il problema, però, anzi il vero ostacolo, si incontra al livello politico e legislativo. Le parti sociali hanno già fatto quasi il massimo con il Testo unico. Ora, lo ripetiamo, il sistema del lavoro italiano ha bisogno urgente di fare davvero pesare i dati sulle tessere sindacali che il Corriere ha reso noti, ossia di varare una legge sulla rappresentanza. Ma, come si è capito, il Governo Meloni sta andando nella direzione opposta e, anche con il ddl lavoro appena approvato dalle Camere, legittima il Far West contrattuale invece di riconoscere il peso delle confederazioni più rappresentative. Forse perché sono confederazioni che non piacciono a questa maggioranza, e osano addirittura scioperare?
Tanto per capirci meglio, citiamo un passaggio dalla lettera inviata da Landini alla premier Meloni: il disegno del governo “sostituisce il consolidato criterio selettivo della ‘maggior rappresentatività comparata’ con il criterio del ‘contratto maggiormente applicato’, che, in assenza di una legge in materia di rappresentanza e di contrattazione, può tradursi in un incentivo alle imprese ad applicare i ccnl più convenienti”.
Un passo indietro: l’accordo del 2014
La relazione tra contrattazione collettiva e rappresentanza sindacale è stata regolata da due accordi interconfederali fondamentali: quello del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013. Questi accordi hanno portato alla creazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 di cui abbiamo detto sopra.
Il Testo Unico ha introdotto un approccio più oggettivo per misurare la rappresentatività sindacale, superando l’autocertificazione e basandosi su elementi concreti come l’iscrizione ai sindacati e i risultati ottenuti nelle elezioni delle Rsu. In questo nuovo sistema diventano quindi fondamentali i criteri in base ai quali definire le organizzazioni sindacali rappresentative ai fini della contrattazione. Criteri che dovrebbero essere certificati, appunto, in una legge.
E un passo avanti, verso contratti migliori per tutti
Il passaggio dall’attuale sistema basato sulla misurazione della rappresentanza in base all’autocertificazione a uno che si basa su elementi oggettivi e rilevati da soggetti terzi produrrebbe solo effetti positivi. Innanzitutto, la titolarità alla contrattazione collettiva, riconosciuta solo a soggetti realmente rappresentativi, limiterebbe fortemente la proliferazione contrattuale che schiaccia verso il basso le condizioni economiche e normative. Inoltre, si faciliterebbe il percorso verso una sorta di efficacia generale dei contratti collettivi.
Sarebbe una vera, grande riforma del lavoro. Dopo decenni di finte riforme e provvedimenti reazionari. E il risultato sarebbe uno solo: contratti migliori per chi vive del proprio lavoro.