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La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. Il più giovane è Marco Gaudenzi. Ha diciotto anni. Il più anziano Vincenzo Padua. Ha sessant'anni ed è vicino al pensionamento. Una strage del lavoro, una delle tante in Italia, ma certo una delle più gravi.
A scatenare l’evento è un incendio, scoppiato in maniera involontaria, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia, avvenuta al termine di una lunga agonia.
Senza sicurezza
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza, dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo. E mostreranno la disorganizzazione del cantiere, di proprietà della Mecnavi Srl, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.
“Lo guardiamo da vicino - riportava l’Unità il giorno successivo - questo ragazzo con la faccia nera di catrame. Si chiamava Paolo Seconi, aveva 23 anni. Basta osservare i suoi vestiti, per capire quali tremendi lavori deve accettare chi per anni ha cercato un lavoro ‘normale’ e non lo ha trovato”.
Raccontare i morti sul lavoro
Scriveva qualche anno fa lo scrittore Angelo Ferracuti proprio commemorando la tragedia:
Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro. La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita.
La strage continua
“E il cimitero dei morti sul lavoro - aggiungeva poco tempo fa Giorgio Sbordoni di Collettiva - continua ad allargarsi come una ferita che nessuno riesce, anzi, che nessuno vuole suturare. L’ipocrisia della tragica fatalità si ripete seguendo un copione già scritto, che nessuno salti una battuta, neanche le vittime. Gli incidenti continuano, sempre uguali a se stessi. Le cadute dall’alto, gli operai investiti nei cantieri autostradali, i muletti o i trattori che si ribaltano, le morti per schiacciamento nei rulli o nelle catene di montaggio o sotto carichi pesanti, il caldo, la fatica, lo sfruttamento. Il coraggio di chi non sente più la voce del collega e corre in soccorso, si cala nel pozzo o nella cisterna, e non ne esce più. Fino al paradosso dell’Ilva di Taranto, dove a distanza di pochi anni, due gruisti sono morti, i corpi per giorni dispersi in mare, dopo che condizioni avverse di maltempo hanno abbattuto la loro gru. Omicidi che hanno un mandante. L’incuria, l’abbandono, il disprezzo delle leggi, il risparmio, la corsa al profitto. Soprattutto, il silenzio”.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no” aveva detto il giorno precedente il settantacinquenne arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987. Un convegno aperto da un’ampia e puntuale relazione di Alfiero Grandi, allora segretario generale Cgil Emilia Romagna, che sottolineava come “questo di Ravenna non è stato un incidente sul lavoro, ma la conseguenza tragica per 13 lavoratori dell’assenza del rispetto delle più elementari norme di tutela e sicurezza e dei più elementari diritti sindacali”.
Parole attuali sulle quali, mai come oggi, ci siamo trovati e ci troviamo costretti a riflettere.