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Questo è il primo intervento sul tema del salario minimo (europeo e non). All'interno di questa rubrica verrà dato spazio alle diverse opinioni di altri giuristi, nello spirito di pluralismo pro-labour che contraddistingue il lavoro della Consulta giuridica
La recente proposta di direttiva europea sui salari minimi adeguati è in questi giorni all'esame del Parlamento italiano. Ciò ha inevitabilmente riportato l'attenzione sul tema, tanto che da più parti è stata sollecitata l'approvazione di una legge anche nel nostro Paese. Alle Camere già sono state depositati in questa legislatura numerosi progetti sul salario minimo, tra i quali uno in particolare, quello che vede come prima firmataria la ministra del Lavoro (il 658), è stato sinora alla base del confronto avvenuto con le parti sociali.
L'iter parlamentare dei vari progetti è però fermo dal luglio 2019, ma potrebbe ora ricevere un nuovo impulso, anche perché la drammaticità della crisi determinata dalla pandemia ha reso ancor più ineludibile l'esigenza di intervenire in favore delle fasce più deboli della popolazione. Ma cosa può cambiare nella discussione politica italiana con la direttiva comunitaria? Va subito detto che, dal punto di vista strettamente giuridico, per come essa è strutturata, potrebbe non cambiare nulla. Infatti, la proposta di direttiva non fissa un salario minimo uniforme dell'Unione, né impone ai Paesi che fondano il loro sistema di determinazione delle retribuzioni esclusivamente sulla contrattazione collettiva di adottare un salario minimo legale, ovvero di rendere generale l'applicazione dei contratti collettivi. Non lo fa, né lo potrebbe fare, perché il Trattato sul funzionamento dell'Unione esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione la materia delle “retribuzioni”, tanto che la base giuridica della direttiva è individuata nel miglioramento delle “condizioni di lavoro”, materia invece contemplata dal Trattato.
Con il perimetro così delimitato, cosa contempla la direttiva? Essa propone indicazioni diversificate a seconda della situazione in cui si trovano i Paesi membri. Com'è noto, dei 27 Stati componenti l'Unione, ben 21 Paesi hanno già previsto un salario minimo legale (anche se non sempre esso risulta adeguato), mentre soltanto 6 Paesi affidano la protezione delle retribuzioni esclusivamente alla contrattazione collettiva. Ai Paesi che adottano salari minimi legali, la direttiva richiede di adottare misure finalizzate ad ottenere una “convergenza verso l'alto” delle retribuzioni ed a prevedere un loro aggiornamento periodico ai fini di garantirne l'adeguatezza. Per quanto attiene ai Paesi, tra cui l'Italia, nei quali la protezione dei salari è affidata alla sola contrattazione collettiva, la proposta di direttiva è invece assai generica, proponendosi di aumentarne la copertura attraverso meri auspici e raccomandazioni.
Ma ciò che qualifica veramente la direttiva sono gli ambiziosi obiettivi proclamati solennemente, che consistono nel sostenere i salari più bassi: un vero cambio di paradigma rispetto alle politiche di austerità perseguite in passato. In questa prospettiva anche l'Italia, che pure vanta un grado di copertura elevato da parte della contrattazione collettiva, non è immune da criticità crescenti. Com'è ben noto, nel nostro quadro costituzionale esistono due norme che entrano in gioco direttamente nella materia delle retribuzioni e della contrattazione collettiva. Il primo precetto è l'articolo 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. L'obiettivo perseguito è dunque sostanzialmente il medesimo della direttiva.
La seconda norma è l'articolo 39, che oltre a garantire la libertà sindacale, prevede nella sua seconda parte un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi. Per complesse ragioni storiche, la seconda parte dell'art. 39 Costituzione non è stata mai attuata, ed il sistema sindacale di diritto comune che si è sviluppato e consolidato ormai mostra tutti i suoi limiti. I contratti collettivi stipulati dalle Organizzazioni sindacali sono spesso insidiati da contratti cosiddetti “pirata”, che operano un inaccettabile dumping salariale a danno sia dei lavoratori che delle imprese più serie e strutturate. Il presidio dell'art. 36, che pure negli anni ha consentito alla giurisprudenza di garantire un'applicazione più diffusa dei minimi salariali, non basta più, perché di fronte a situazioni di sempre più diffusa elusione dei contratti collettivi, il singolo lavoratore deve pur sempre tutte le volte agire in giudizio, con i costi ed i tempi che questo comporta.
Più di recente si assiste anche all'inedito fenomeno di sentenze che hanno dichiarano l'inadeguatezza, dal punto di vista dell'art. 36 Cost., anche di ccnl stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, perché assicurano salari minimi inferiori alla soglia di povertà. Per realizzare in particolare l'obiettivo di arrivare ad un sistema di contrattazione collettiva solida e ben funzionante, con alto grado di copertura, è assolutamente necessario ed urgente un intervento legislativo che sostenga la contrattazione collettiva. A mio giudizio, tra i vari testi giacenti in Parlamento, tutti compatibili con la direttiva, il disegno di legge n. 658/2018 è quello più idoneo a realizzarne gli obiettivi, anche perché ha il pregio di rispettare pienamente le prerogative, il ruolo e l'autonomia delle organizzazioni sindacali.
Da un lato, viene infatti stabilito che il salario minimo, o meglio i salari minimi, siano proprio quelli previsti dai contratti nazionali stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. Dall'altro lato, viene affrontato finalmente il problema della misurazione della rappresentatività dei sindacati (sia dei lavoratori che delle imprese), richiamando le regole che essi stessi si sono date con l'accordo interconfederale del 2014. Il disegno di legge 658 a mio giudizio non limita l'autonomia, ma anzi offre un sostegno alle organizzazioni sindacali, anche nella parte che ha trovato più resistenze: quella cioè in cui prevede che la stessa contrattazione collettiva, nella determinazione dei minimi, non possa scendere sotto una certa soglia (indicata in 9 euro lordi).
Come non vedere infatti che l'imposizione di un limite legale invalicabile sostiene la contrattazione, evitando la rincorsa al ribasso ed il dumping tra sindacati, e quindi non limita l'autonomia sindacale, ma anzi la rafforza? Al legislatore dunque il compito di definire standard minimi di tutela, ed alle parti sociali il ruolo di migliorare, laddove ci sono le condizioni, quei trattamenti e di remunerare adeguatamente professionalità e qualità del lavoro.