L’appuntamento è alle 10 di sabato 19 ottobre in Piazza del Popolo a Roma. A fissarlo le categorie delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici di Cgil e Uil. Le richieste al governo sono nette e chiare: salari dignitosi. Certo, la proposta dell’Aran di fissare al 5,75% l’aumento previsto per i rinnovi contrattuali a fronte di una inflazione di oltre il 17% dignitosa non è. Poi le sigle chiedono lo sblocco dei fondi per il salario accessorio; un piano straordinario di assunzioni, visto che alla pubblica amministrazione mancano oltre un milione di addetti; maggiori risorse per la sanità pubblica; stabilizzazione dei precari; stop alle privatizzazioni. Né nel Piano strutturale di Bblancio né nella manovra finanziaria sembrano esserci risposte. Serena Sorrentino, segretaria generale della Fp Cgil illustra le ragioni della mobilitazione.

Da ultimo nel Psb, ma in realtà in tutte le politiche degli ultimi due anni del governo, sembra individuarsi una strategia, il graduale ma costante restringimento del perimetro pubblico. Una promessa elettorale mantenuta?

Nel programma elettorale e di governo nessuno dei partiti della maggioranza ha affrontato né il tema del lavoro nella pubblica amministrazione, né tanto meno la qualificazione dei servizi ai cittadini. Economicità, razionalizzazione, deregolamentazione sono invece termini che compaiono per indicare la direzione di marcia, che insieme al definanziamento dei settori a partire da sanità e sociale, al mancato piano straordinario delle assunzioni e al non adeguamento dei salari dei dipendenti di tutti i servizi pubblici (che addirittura il Ministro Zangrillo rivendica come scelta), si possono tradurre con meno pubblico e più privatizzazione; cioè meno universalità e più selezione in base al reddito di chi può accedere ai servizi e chi a causa dei costi che aumentano rinuncia, come sta accadendo per il diritto alla salute.
Ci perdono lavoratori e lavoratrici pubblici, ci perdono i cittadini e le cittadine. Che idea di Paese?

Privatizzazioni e autonomia differenziata tracciano il profilo di un Paese diviso territorialmente; in cui viene meno la coesione sociale come progetto politico, in cui la lotta di classe la vincono i ricchi e relega ai margini il settore pubblico, svalorizzando le competenze, le professionalità e il salario di chi ci lavora, attaccando il valore di avere servizi pubblici di qualità che fanno dell’appropriatezza e dell’efficacia degli interventi e della presa in carico dei cittadini e delle comunità, il maggiore strumento di lotta alle disuguaglianze e sviluppo per il Paese. La lezione della pandemia era quella di assumere il benessere delle comunità e la sostenibilità in tutte le sue dimensioni, come paradigma di nuove politiche su cui concentrare il piano di investimenti più importante degli ultimi cento anni, per affrontare le grandi transizioni demografiche, ambientali, digitali. Diventare più “sicuri e in salute” per essere più protetti dalle crisi globali significava innanzitutto investire nelle filiere della cura e nel sostegno all’economia reale. Come sottolinea l’Oecd, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari reali sono diminuiti negli ultimi trent’anni: per ciò che attiene la pubblica amministrazione siamo sotto la media europea, nonostante l’ampia forbice tra le retribuzioni dei comparti e quella della dirigenza che aumenta il valore mediano. Appare evidente dagli interventi su salute e sicurezza, dalla mancata approvazione della legge sul salario minimo, dalla crescita della precarietà, dal mancato adeguamento dei salari dei dipendenti pubblici, dai tagli a sanità e sociale, dalla politica fiscale che non guarda al riequilibrio progressivo della pressione diminuendola sui redditi da lavoro e pensione e adeguandola su rendite improduttive, profitti da speculazione e alti patrimoni, che la dignità e qualità del lavoro e della vita delle persone non sono alla base dell’iniziativa politica di questo governo.

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Le premesse della prossima legge di bilancio, se possibile, peggiorano la situazione. Nulla per rinnovi dignitosi dei contratti, nulla per le assunzioni.

La politica economica del governo sta mortificando e desertificando lo spazio pubblico. La scelta è quella di collocare sul mercato privato servizi pubblici e purtroppo i tagli alla spesa – in particolare per gli enti locali ma non solo – producono un abbassamento anche del valore degli affidamenti e degli appalti pubblici provocando dumping contrattuale. Come dire: se Sparta piange Atene non ride, se osserviamo la gestione diretta e indiretta dei servizi pubblici, mentre il privato-privato non cresce sulle tasche dei cittadini, ma sta piano piano sostituendo funzioni pubbliche in particolare nel settore dell’assistenza.

Negli annunci del governo sulla legge di bilancio e nel documento programmatico di bilancio, sono chiare le scelte di non prevedere assunzioni di massa nelle pubbliche amministrazioni e di non finanziare con risorse aggiuntive né il contratto di cui è aperta la vertenza, quello 2022-24, né il prossimo che per il 2025-27 vale un terzo del finanziamento attuale e che pure giudichiamo inadeguato (circa il 2%).

Eppure nella pubblica amministrazione manca oltre un milione di addetti e oltre 300mila ne andranno in pensione nei prossimi due anni. Ne va della qualità del lavoro e dei servizi...

Oggi non assumere nella pubblica amministrazione sta significando chiudere sportelli dell’Inps, chiudere asili nido, ridurre la presenza di ambulatori pubblici sul territorio, non avere il medico di medicina generale, avere lunghe attese per tanti, troppi servizi, e per i lavoratori avere orari e carichi di lavoro insostenibili soprattutto quando si ha relazione con i cittadini. In questi anni la propaganda ha contrapposto cittadini e operatori dei servizi pubblici, il fenomeno delle aggressioni sta lì a dimostrarlo. Il 19 saremo in piazza anche per dire che ci vuole una nuova alleanza per contrastare la riduzione dei servizi pubblici e non assumere in modo adeguato a rispondere alle esigenze delle comunità: è il modo in cui stanno portando al collasso la Pa.
È pari al 6,3% il rapporto tra spesa sanitaria e Pil previsto per il 2025: poca salute per pochi e condizioni di lavoro per gli operatori sempre più difficili.

Con questo livello di definanziamento neanche i Lea saranno garantiti, come le stesse Regioni hanno segnalato al governo in una nota molto dettagliata lo scorso 9 ottobre; nella quale indicano che le risorse stanziate non consentono l’entrata in vigore delle nuove tariffe per garantire i nuovi Lea e che provocherebbero il blocco da parte del Mef di 631 milioni di euro senza la sua entrata in vigore. A questo si aggiungono le richieste di aumento del fondo nazionale di finanziamento del servizio sanitario nazionale al livello europeo e una serie di richieste specifiche dall’edilizia sanitaria alla spesa farmaceutica, alle liste d’attesa, ai piani di prevenzione fino a maggiori risorse per coprire le stesse misure introdotte dal governo, ma a valere sulla spesa regionale relative a determinate indennità per il personale sanitario. Come sindacato chiediamo che non sia accantonata la nostra rivendicazione di sblocco dei tetti sul salario accessorio, rifinanziato adeguatamente il Ccnl ‘22-24, si proceda alla stabilizzazione dei precari e ad un piano assunzionale che tenga insieme incentivi per la scelta delle facoltà e dei corsi di formazione che preparano gli operatori dell’intera filiera sanitaria e socio-sanitaria e la cancellazione dei vincoli che ancora gravano sulle assunzioni. Non è con qualche cerotto che rimettiamo in forma il Ssn, ci vuole una cura poderosa di cui il Pnrr era solo una parte. Il resto manca nella strategia, nella sostanza delle scelte che vanno verso il definanziamento e la privatizzazione, e la svalorizzazione di un lavoro che diventa sempre più intensivo.

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Infine la spada di Damocle dell’autonomia differenziata, che si abbatterà sui cittadini e le cittadine ma anche sui lavoratori e le lavoratrici dei settori pubblici. Quale qualità di democrazia è questa?

Leggiamo, come categoria, il disegno di autonomia differenziata anche dal punto di vista amministrativo: lo abbiamo già visto con le province cosa significa riassegnare funzioni e personale ad invarianza di risorse. E sappiamo che in un Paese con quasi 9mila Comuni senza risorse e senza personale, in una generale e sostanziale differenziata distribuzione della produzione di ricchezza tra territori, l’autonomia differenziata rischia di mandare in default gli enti locali e sancire diritti sociali e di cittadinanza differenti a seconda del territorio di residenza. Se poi a questo si aggiunge la frammentazione contrattuale all’interno degli stessi comparti pubblici che potrebbero avere divergenze regionali, ciò su cui si fondava l’unità del Paese, cioè l’indivisibilità amministrativa nell’assunzione del valore, tuttavia, strategico del decentramento amministrativo appare completamente stravolto da una secessione che si fonda sulla divisione competitiva tra aree del Paese. Siccome l’articolo 3 della Costituzione prescrive: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, l’unica opzione compatibile con questo precetto costituzionale è ritirare la riforma istituzionale proposta dal governo. Per questo convintamente sosteniamo i referendum abrogativi e per questo saremo in piazza il prossimo 19 ottobre. Nessuno si salva da solo ma ognuno può essere parte del cambiamento: dobbiamo parlare a chi lavora, ai cittadini, agli studenti, agli amministratori, alle associazioni che animano il sociale e il civismo. Quando si cambia la Costituzione materiale è in gioco più di una sbagliata riforma; non è un dibattito tra addetti ai lavori, ma una scelta di quale spazio democratico si sta delineando e se in quello spazio si tutela l’interesse generale.

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