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Le privatizzazioni del passato si sono trasformate in una rendita privata per pochi. E ora il Governo Meloni sta per fare il medesimo errore. Poste, Eni, Ferrovie, ma anche Raiway, il sistema portuale, quanto sta accadendo in Tim: nulla sembra salvarsi dalla nuova ondata di cessioni sul mercato. Un progetto, con l’unico obiettivo di fare cassa, cui la Cgil si oppone fermamente. Il segretario confederale Pino Gesmundo ci indica un’altra strada: virtuosa, efficiente, vicina a cittadini e lavoratori.
Nella manovra 2024 il governo ha previsto che in tre anni lo Stato debba incassare 20 miliardi dalle privatizzazioni. Che messaggio sta dando l’esecutivo al Paese?
Nel bel mezzo della gestione delle due epocali transizioni, nella legge di bilancio per il 2024 non c'è alcuna svolta su politiche industriali e investimenti per la crescita, in grado di creare lavoro e affrontare le tante crisi aziendali aperte. In una fase in cui sarebbe urgente intervenire per rilanciare il sistema industriale, e con esso l’occupazione e l’economia, si pensa invece a ricette sbagliate che mettono in discussione e fanno perdere il controllo di interi asset strategici, ipotizzando la privatizzazione di aziende partecipate pubbliche al solo scopo di fare cassa e senza alcuno sguardo strategico. Il tutto, per la sola gestione della spesa corrente. Peraltro, poco influente è l’intervento sul debito in quanto 20 miliardi rappresentano solo lo 0,71% dell’ammontare complessivo del debito pubblico italiano, che è di oltre 2.800 miliardi.
Un governo che si autodefinisce “sovranista” dovrebbe tutelare le aziende italiane, almeno in linea di principio, non lasciandole alle possibili scorribande del libero mercato internazionale. È pregiudizio ravvisare una contraddizione?
Evocare il sovranismo in un mondo fortemente interconnesso e globalizzato è frutto di un retaggio ideologico fuori dal tempo. Siamo in una fase nella quale si stanno ricomponendo equilibri globali economici e politici: il tema vero diventa quello di incidere per favorire scelte di giustizia economica e sociale. Quella con cui ci scontriamo è invece una realtà fatta di propaganda politica che nulla ha a che vedere con le azioni concrete che andrebbero introdotte per tutelare e rilanciare il sistema industriale del Paese. Manca qualsiasi visione strategica e di sistema, necessaria a orientare (anche) il mercato e costruire filiere nei settori strategici, catene del valore in grado di far crescere l’economia e creare occupazione stabile, professionalizzata e per gestire le innumerevoli crisi aziendali già in atto.
La scelta, dunque, sembra essere quella di affidarsi al mercato…
Esattamente. E lo si fa attraverso incentivi automatici e generalizzati al sistema delle imprese, che non incidono sui meccanismi di produttività, sulla dimensione aziendale e sulla distribuzione del reddito. Quando bisognerebbe contrastare politiche che siano solo a vantaggio di profitti e rendite, che alimentino ulteriormente le tante “diseguaglianze”. L’Italia e l’Europa potrebbero e dovrebbero fare la propria parte. Vengono tagliati gli investimenti pubblici, mentre aumentano i ritardi e le incognite sull'attuazione del Pnrr che rischiano di condannare alla desertificazione industriale e sociale intere parti del Paese, penso in particolare alle aree interne e al Mezzogiorno. In questo contesto è assurdo che vengano rilanciate le privatizzazioni, ossia la “svendita” di quote delle partecipate pubbliche. Importanti infrastrutture del Paese che andrebbero, invece, difesi e rilanciati per fare vere politiche industriali e di sviluppo, a partire dalla tutela e dal rilancio del nostro sistema produttivo.
Le privatizzazioni del passato non hanno fatto nascere grandi gruppi industriali sia come dimensioni sia come internazionalizzazione dell’azienda. Anzi, sono state soprattutto operazioni finanziarie e speculative. C’è qualche motivo per pensare che stavolta potrebbe essere diverso?
Il nostro Paese ha avuto una lunga tradizione di politiche industriali. Principalmente sono state attuate dalle grandi imprese annoverate come partecipazioni statali, nate a seguito del boom economico. I grandi campioni nazionali (quali Enel, Eni, Telecom Italia, Autostrade, Alitalia, Fincantieri, EniChem, Poste, Ferrovie dello Stato, Anas e altri) sono riusciti a realizzare politiche industriali nei settori di competenza portando il nostro Paese a eccellere in vari settori, grazie agli investimenti in innovazione e ricerca e all'alta capacità gestionale e collocando le aziende ai primi posti delle classifiche mondiali. Quando nel 1991 l'Italia raggiunse il rango di quarta potenza mondiale, superando la Gran Bretagna in termini di Pil pro-capite, fra i 20 grandi gruppi industriali del Paese se ne contavano ben 13 a controllo pubblico. L’Iri e l’Eni si collocavano rispettivamente all'11° e al 18° posto fra le più grandi corporation al mondo.
Poi, a partire dal 1992, si iniziò a privatizzare.
Nel periodo 1992-2007 l’Italia privatizzò circa 160 miliardi di dollari di asset industriali. Le privatizzazioni furono motivate non soltanto dal proposito di “fare cassa” per ridurre il debito pubblico, ma anche come intrinseca operazione di politica industriale. Si sosteneva che la vendita ai privati avrebbe reso le imprese pubbliche “più efficienti”, rafforzando il tessuto produttivo del Paese. Viceversa, si è assistito alla scomparsa o al forte ridimensionamento della grande impresa privata: Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli e Falck, Condotte, Astaldi.
Le attività privatizzate più esposte alla concorrenza – fra cui Ilva, Italtel, successivamente Alitalia – hanno vissuto clamorosi tradimenti competitivi. In quelle a carattere monopolistico, in primis Telecom Italia e Autostrade, la profittabilità che prima costituiva una fonte interna di finanziamento del sistema pubblico, si è trasformata in una rendita privata per pochi. Oggi, il governo sta valutando la possibilità di cedere ulteriori quote delle partecipate Ferrovie, Poste, Anas. Non mi pare che l’impostazione dell’attuale governo sia distante dalle logiche del passato. A questo punto, è facilmente prevedibile quali saranno le sciagurate conseguenze.
Le privatizzazioni incideranno sicuramente sull’occupazione: cosa si prevede? abbiamo già delle stime sui possibili impatti?
Sono 183.193 le lavoratrici e i lavoratori già oggi travolti dagli effetti di crisi aziendali o di settore nel comparto dell’industria e delle reti. Un numero che ci mette nella condizione di confutare, con cognizione di causa, le affermazioni di quanti confondono la propaganda con la realtà, e che rafforza le ragioni delle nostre preoccupazioni per la mancanza di politiche industriali e di sviluppo in grado di dare risposte ai lavoratori. Le privatizzazioni, con il solo intento di fare cassa ed essere utilizzate per la spesa corrente, metteranno sicuramente a rischio l’occupazione. Vorrei ricordare che prima delle precedenti privatizzazioni le aziende partecipate insieme collocavano quasi mezzo milione di addetti, l'Efim altri 35 mila, Enel e Ferrovie altri 110 mila e 170 mila, le Poste avevano circa 240 mila dipendenti. Verso la fine degli anni Ottanta le sole imprese a partecipazione statale pesavano per il 6% del Pil e per il 12% degli investimenti nazionali.
Quali saranno, dunque, le ricadute?
Non c’è dubbio che le ricadute occupazionali e sui servizi potrebbero essere pesanti. Peraltro, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: organici ridotti, lavoro precario e parcellizzato, part-time involontari, appalti e subappalti al massimo ribasso, bassi salari e lavoro insicuro rappresentano le emergenze frutto di politiche che hanno svalorizzato il lavoro e la dignità dei lavoratori. Un’emergenza per la quale bisogna intervenire utilizzando tutti gli strumenti democratici a disposizione.
Poste, Eni, Ferrovie: sono questi gli asset strategici che dovrebbero passare in mani private, almeno inizialmente come quote azionarie di minoranza (per Poste, ad esempio, s’intende cedere circa il 30%). A che punto è il dibattito su ognuna di queste aziende?
A Poste, Eni e Ferrovie potrei aggiungere Raiway, il sistema portuale, quello che sta succedendo in Tim. Si svendono infrastrutture strategiche del Paese, che rischiano di essere preda di speculazioni finanziarie e per le quali la discussione e il confronto semplicemente non esistono. Le notizie sono quelle giornalistiche e nessun confronto “vero” è stato avviato. Abbiamo chiesto un incontro unitario al ministro Giorgetti, ma siamo ancora in attesa di convocazione. Deve essere assolutamente chiaro che, se non sarà aperto immediatamente un confronto, chiameremo alla mobilitazione le lavoratrici e i lavoratori, e ovviamente i cittadini, per impedire qualsiasi scelta che metta a repentaglio il futuro di asset strategici, nell’interesse dei dipendenti e del Paese tutto.
Il governo giustifica l’intervento con la necessità di fare cassa per ridurre il debito pubblico: ma non c’è altro modo di reperire le risorse necessarie?
Le ricette del governo sono miopi e inique. Le risorse bisogna andarle a prendere dove sono. Prima di tutto attraverso una vera riforma fiscale che non crei disparità di trattamento, a parità di reddito. Lavoro autonomo, impresa, rendite finanziarie e immobiliari che vengono tassati meno di lavoratori e pensionati, e tenuti fuori dal vincolo della progressività. È urgente una vera lotta all’evasione che non solo non viene contrastata, ma premiata con gli oltre 12 condoni già approvati nei mesi scorsi, nonché perfino legalizzata con l’assurdità del concordato biennale preventivo. Sarebbe giusto, inoltre, pensare a un’imposta sui grandi patrimoni e sugli extraprofitti. Ma bisogna anche investire per la crescita del Paese, sfruttandone le grandi potenzialità con investimenti veri su infrastrutture materiali e immateriali. Altro che i tanti miliardi che sprecheremo per realizzare il ponte sullo stretto. Siamo in presenza delle risorse del Pnrr e contestualmente di due trasformazioni epocali che avvengono con una velocità impressionante: la transizione energetica, quella digitale, e si pensi alle ricadute dell’intelligenza artificiale. Servono politiche industriali. Sbagliare in questo contesto rischia di collocare fuori mercato la gran parte del tessuto produttivo del Paese.