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A Pistoia c’è un uomo ricoverato in terapia intensiva. Lo hanno portato lì d’urgenza da Prato. È stato intubato, poi estubato, poi ha avuto una crisi e ora è sotto un casco respiratore perché, da soli, i suoi polmoni non ce la fanno. I medici dicono che è stabile ma che non è fuori pericolo. Fin qui la sua storia è simile a quella delle migliaia di donne e uomini che sono ricoverati perché positivi al Coronavirus. Ma questa è una storia particolare perché è anche una storia di lavoro, di paura, di possibile contagio e di profonda insicurezza.
Quell’uomo, infatti, è dipendente di una delle filiali online di Intesa San Paolo. Ed è stato in servizio con i suoi colleghi fino a pochi giorni fa. Una filiale online è, di fatto, un call centerdove si lavora fianco a fianco gli uni agli altri, con le cuffie nell’orecchio e il microfono a pochi millimetri dalla bocca. Il palazzo storico, in pieno centro pratese, che un tempo ospitava la Cassa di Risparmio, oggi è popolato da circa trecento persone e, tra amministrativi e addetti della filiale tradizionale, ci sono anche loro, sessanta operatori in linea. Quarantacinque anni d’età media, e tanti di esperienza alle spalle.
Il risultato del tampone è arrivato giovedì sera. Venerdì mattina il passaparola tra colleghi. Poi il panico: la preoccupazione per l’amico, con cui fino a pochi giorni prima ci si era presi il caffè al bar o si era condiviso il pranzo, mescolata a quella per la propria vita improvvisamente a rischio. “Diventeremo un focolaio?”. Molti piangono, molti chiamano il sindacato, altri si rifiutano di entrare: troppo pericoloso. Altri ancora sono già in servizio. “Chiudere, chiudere subito” è la richiesta corale. Per bloccare quell’ultimo piano del palazzo e attivare l’azienda sanitaria ci vogliono un paio di ore.
Centoventi minuti trascorsi ad aspettare la quarantena. Sessanta persone almeno che convivono negli stessi spazi, che condividono sale riunioni, sale relax, bagni e ascensori, che ruotano sulle singole postazioni e magari si scambiano, tra un turno e l’altro, anche microfoni e cuffie. Prima che il caso esplodesse Intesa aveva avviato delle misure di contenimento, riducendo il numero dei turni e cercando di limitare l’uso delle diverse scrivanie. Ma il caso ora è scoppiato. Un dipendente è in terapia intensiva e non si sa se altri siano stati contagiati. Poi ci sono anche le guardie giurate all’ingresso, gli addetti alle pulizie che ogni giorno arrivano quando le postazioni si spengono. E poi forse anche gli altri: tutti quei trecento e più che hanno toccato maniglie, pulsanti, salito e sceso le scale insieme. La quarantena, però, non arriva. Dopo un confronto tra la banca e la Asl parte solo la sanificazione dei locali. I lavoratori hanno l’ordine di rientrare in ufficio. Asintomatici? Positivi? Sani? Non si sa. E nemmeno ci si attrezza per saperlo.
“È clamoroso. – commenta Diego Viti, della Fisac Cgil provinciale – La Asl avrebbe dovuto ricostruire i contatti del lavoratore malato avvalendosi del cartellino, ma dopo il confronto con la direzione aziendale ci è stato detto che non esistevano gli estremi per procedere alla quarantena lasciando tutti basiti perché tutti, chi più chi meno, hanno lavorato con un collega positivo e sintomatico”. Accade così che alcuni contattano il proprio medico di base e il numero verde regionale raccontando la loro storia. A quel punto la Asl dispone la quarantena, ma solo per chi ha seguito questo percorso. Intanto Intesa decide – non è chiaro ancora su quali basi – chi dei lavoratori deve restare a casa e concede loro permessi retribuiti extra. Gli altri chiedono le ferie: pagheranno di tasca propria la loro personale messa in quarantena sperando che nessuno si ammali. Al lavoro continuano ad andare solo in sei. Intanto il dubbio assale l’intera comunità: se ci sono dei contagiati che vanno in giro il rischio è alto anche fuori da quel palazzo.
Ricostruita la storia restano tanti punti interrogativi. Perché la Asl non ha disposto la quarantena per tutti i colleghi del lavoratore malato? Perché si è preferito rischiareanziché cercare subito di capire - attraverso tamponi e screening - se ci fossero altri contagiati? Perché esporre a un possibile pericolo non solo i lavoratori ma anche l’intera comunità? E perché il trattamento per chi oggi resta a casa non è omogeneo? Domande sulle quali il sindacato in questi giorni continua a incalzare banca e Asl. E che avremmo voluto rivolgere alla direzione della stessa filiale se avesse risposto alla nostra richiesta di intervista.
“Le banche offrono un servizio essenziale e, in momenti come quello che stiamo attraversando, è proprio il servizio online quello che vede crescere la propria attività. La salute, però, non è mai sacrificabile.” Si poteva evitare una situazione di così forte esposizione? Forse sì se i lavoratori avessero potuto lavorare da remoto. Peccato che il più grande gruppo bancario italiano fosse avanti su tutto ma non sullo smartworking: “In realtà, quando il coronavirus ha iniziato a circolare – conclude Viti –, Intesa ha ordinato i computer per il telelavoro pensando di distribuirli a partire dalle regioni del Nord che erano più colpite. Ora però che il virus si è diffuso dovrebbe rivedere le sue priorità. I computer vanno dati prima a chi si trova in situazioni come la nostra. Pensate che da noi dovrebbero arrivare per Pasqua. Troppo tempo. E di tempo non ne abbiamo”.