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Lavoro povero. La didascalia della realtà italiana misurata lungo gli ultimi 30 anni da un dato Ocse di cui si discute da giorni è un paradosso. Ed è giusto così. Perché la realtà italiana è paradossale. Perché, se lo chiedessimo a un bambino, ci risponderebbe che chi lavora non è povero. Si lavora proprio per non esserlo.
La curva maledetta disegnata dalle percentuali rese note dall’Ocse ci sbatte in faccia tutto il ritardo che ogni cittadino italiano sconta rispetto ai cittadini di paesi che – quando conviene – vengono descritti come vicini, simili, partner. Così, grazie alla Fondazione Di Vittorio, che rielaborando gli ultimi numeri ha dato un contorno preciso a una realtà che era già evidente nella nostra percezione, abbiamo scoperto che i francesi mediamente guadagnano oltre diecimila euro più di noi, i tedeschi addirittura 15mila euro. Che il salario medio nell’Eurozona si attesta sui 37.400 euro, il nostro salario medio è di 29.400. Inferiore persino al periodo che ha preceduto la pandemia.
Saranno pure medie, ma queste cifre gridano una cosa sola: per quanto lavoriamo, qui nel Belpaese, restiamo sempre indietro. Guadagniamo meno di tutti, meno persino di noi stessi una manciata di anni fa.
Eppure la crisi devastante del 2008 fu una crisi mondiale che ovunque durò per anni. E l’emergenza sanitaria è scoppiata in seguito a una pandemia che non ha risparmiato nessun angolo del mondo. Ma allora perché in Italia siamo sempre fanalino di coda? “I fattori determinanti nella spiegazione di questo quadro sono tre – ci spiega Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil nazionale –. Precarietà, mancato rinnovo dei contratti e scelte politiche”.
La precarietà
Sulla precarizzazione del lavoro nel nostro Paese basta l’ultimo dato: “nel 2021 – citiamo il report della Fondazione Di Vittorio – i dipendenti a termine hanno raggiunto il 16,6% (in aumento anche nel 2022) e la percentuale di occupati a part-time involontario si è attestata al 62,8% degli occupati a tempo parziale”, un livello, neanche a dirlo, superiore rispetto agli altri paesi europei e alla media dell’Eurozona. Forse il numero è ancora più chiaro: secondo le rilevazioni Istat, i precari in Italia sono risultati circa 3 milioni (3.077.000) a dicembre 2021 e a gennaio 2022, in base ai dati Inps, sono stati assunti con un contratto di lavoro precario o a tempo determinato 503.158 lavoratori. Siamo alla solita media del pollo di Trilussa: chissà quanti di questi 3 milioni raggiungono il salario medio di 29.400 euro.
“I governi che si sono succeduti – commenta con amarezza Francesca Re David – hanno ampiamente aperto a tutte le forme possibili di precarizzazione del lavoro e quando tu ti trovi di fronte a rapporti di lavoro di 4 ore a settimana o di 8 ore a settimana, a una massa enorme di part-time involontario, soprattutto nel terziario, nel privato del pubblico, nell’assistenza, è chiaro che i salari ne usciranno falcidiati. Gli orari corti determinati da un’estrema precarizzazione del lavoro portano a salari di povertà. E a salari di povertà portano, per definizione, anche tutte quelle gare, la maggior parte, che assegnano appalti e subappalti seguendo il criterio del massimo ribasso. Persino nel pubblico. Stimolando la nascita di contratti che viaggiano sotto alle medie”.
I contratti
I contratti. Eccola la leva principale per tirare su i salari. Peccato che molto spesso non vengano rinnovati per anni, generando situazioni di estrema difficoltà. “Ci sono contratti – dichiara la segretaria confederale della Cgil – che non vengono rinnovati anche per otto o dieci anni. Quando tu non rinnovi un contratto determini il fatto che il livello salariale del contratto nazionale, resta invariato. I lavoratori più forti sono in grado di ovviare trattando per un buon contratto integrativo e in determinati casi è la stessa azienda ha decidere gli aumenti individuali”.
“Quello che si sta facendo in questa fase di emergenza è elaborare degli elementi di garanzia ai quali legare gli aumenti. Io penso che i contratti nazionali siano la leva da agire, perché tengono insieme i più forti e i più deboli e quindi spingono in avanti tutti. E poi, come sappiamo bene, il contratto nazionale non è composto solo dal salario, ma regola molti altri elementi che costituiscono di fatto reddito per le persone: dalla salute alle ferie, dalla maternità a tutti gli altri istituti, agli orari”.
Quando la contrattazione funziona i sindacati riescono a proteggere i salari dei lavoratori. Ne sono un ottimo esempio le ultime tornate di rinnovi. “In tutto i contratti nazionali firmati da categorie Cgil e depositati al Cnel sono 190 – si legge in uno studio recente a cura di Nicoletta Brachini, dell’area Contrattazione della Cgil nazionale –. Di questi, 105 (il 55%) risultano attualmente scaduti (vi sono compresi 5 scaduti nel corso del 2022). I contratti scaduti da oltre 10 anni sono circa il 7% del totale, mentre quelli scaduti il 2013 e il 2018 sono 34, il 18%. Tra il 2019 e il 2021- sostanzialmente in periodo pandemico - sono scaduti 57 contratti nazionali, quasi un terzo del totale”.
“Durante la pandemia c’è stata forte una spinta al rinnovo dei contratti – ci spiega Francesca Re David –, nell’industria in particolare. I principali contratti rinnovati fino ad oggi sono andati tutti oltre l’Ipca (l’indice dei prezzi al consumo) com’era prima che scoppiasse l’inflazione. Utilizzando strumenti diversi, chi i minimi, chi il complessivo, chi il valore punto o altre forme.
È ovvio che le piattaforme già aperte prima della fiammata inflazionistica – ce ne sono alcune aperte da lunghissimo tempo – risentono di questa condizione perché sono state elaborate quando l’inflazione era vicina allo zero e anche l’indicatore del patto della fabbrica, per quanto riguarda l’Ipca depurato dagli elementi energetici, oggi, con l’inflazione determinata proprio dagli energetici importati, denota tutta la sua inadeguatezza. Ce lo ha detto anche l’Istat.
Nonostante questo si stanno cercando dei meccanismi di aggiustamento anche per queste piattaforme. Faccio un esempio: il caso del contratto degli agricoli, chiuso pochi giorni fa. I lavoratori di quel settore hanno un sistema composto da una contrattazione nazionale e poi, nel biennio, da quella provinciale o regionale. In questo caso hanno stabilito che nel settembre del 2023 ci sarà una clausola di verifica rispetto all’inflazione effettiva. In questo modo, pur chiudendo un contratto che nasceva da una piattaforma preesistente al rush inflazionistico, hanno previsto un riallineamento all’inflazione effettiva. Penso che questo sia un meccanismo interessante.
Il contratto dei metalmeccanici prevede che le tranche di aumento stabilite anno per anno tengano conto del dato dell’inflazione sull’anno precedente. In questa tranche non c’è stato bisogno di un riallineamento perché l’inflazione del 2021 era inferiore alla tranche salariale, l’anno prossimo sicuramente ci sarà una correzione.
Quello di cui stiamo parlando adesso è un altro meccanismo ancora, tiene conto di quanto sta accadendo e prova a stabilire per questa tornata contrattuale la necessità di una verifica”.
Le scelte politiche
Il terzo elemento è quello politico. “È la politica che ha scelto di collegare i salari all’inflazione dal 1993, all’inflazione programmata, all’Ipca e così via. A questa scelta, però, non ha affiancato una strategia d’insieme che riguardasse la crescita complessiva del Paese. In sintesi gli unici che hanno pagato sono i lavoratori perché il collegamento del salario a vincoli di moderazione non è stato bilanciato né con un’estensione della contrattazione di secondo livello – che invece era negli impegni – né con l’assunzione di scelte politiche che avessero un effetto sui prezzi. E così i salari sono rimasti vincolati e gli altri elementi invece no”. Risultato: i prezzi sono cresciuti mentre i salari restavano al palo.
“In questi anni – ci spiega Francesca Re David – noi abbiamo avuto una legislazione che ha puntato alla liberalizzazione del lavoro precario, che non è intervenuta sulla moltiplicazione dei contratti, che ha promosso la liberalizzazione degli orari di lavoro, la proliferazione dell’appalto e del subappalto. Tutto questo ha tirato in basso i salari e adesso se ne pagano le conseguenze. La legge non deve sostituire la contrattazione, ma deve dettare le regole che sostengono la contrattazione. La direttiva europea sul salario minimo è una di quelle, perché tutela chi non ha un contratto nazionale di riferimento o chi ce l’ha scaduto da tempo o comunque prevede un minimo inferiore. La legge sulla rappresentanza è un’altra di quelle regole che bloccherebbe la proliferazione dei contratti e la nascita dei contratti pirata. Sono queste le buone regole che la politica deve mettere in campo per promuovere un’inversione di tendenza rispetto all’andamento dei salari in Italia”.