In Europa l’Italia è l’unico Paese i cui salari si riducono dal 1991. Persino la Spagna, che pure stava molto indietro, ha mostrato segni di ripresa molto importanti: dal 1991 al 2023 le retribuzioni sono salite di oltre il 9%, in Italia sono scese di oltre il 3%. Francia e Germania hanno fatto segnare addirittura un +9.000 e +10.000 euro. Quanto al potere d’acquisto, anche qui i numeri sono impietosi: dal 1990 al 2020 in Italia è sceso del 2,9%, rispetto al +18,4% della media Ocse e al +22,6% della media zona euro.
Sono questi alcuni dei dati più allarmanti contenuti nel rapporto realizzato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil “La questione salariale. L’emergenza salariale continua”. Emergenza che, non casualmente, è una delle ragioni principali dello sciopero generale del 29 novembre proclamato da Cgil e Uil.

Se il lavoro è diventato povero, non si può superficialmente dare tutta la “colpa” all’inflazione, che tra l’altro si sta riducendo. “La questione salariale è questione sindacale, questione sociale, questione economica, questione etica – spiega Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio –, perché strettamente connessa alle disuguaglianze. È anche una questione politica generale per l’entità della sua dimensione e per le sue cause profondamente intrecciate con i nodi di fondo della lunga crisi italiana”.

Modello di sviluppo a perdere

Insomma a essere chiamato in causa è un modello di sviluppo fondato sulla progressiva precarizzazione e svalutazione del lavoro, che si è sostituita alla competitività giocata sulla svalutazione della moneta. Non solo: sul calo delle retribuzioni ha anche inciso pesantemente la perdita dei posti di lavoro nei settori ad alta produttività a favore dei servizi a bassa qualificazione che dal 2010 al 2019 sono saliti dal 49 al 53%. L’economia italiana ha insomma scelto un modello di sviluppo a basso valore aggiunto e con scarsi investimenti in tecnologie e produttività. Il tutto in una dinamica grazie alla quale sempre più quote di reddito si sono spostate dal lavoro ai profitti.

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Il crollo dei salari

La decrescita delle retribuzioni ha portato a una situazione che è sotto gli occhi di tutti. Sempre secondo i dati dell’Ocse in Italia il salario lordo annuale nel 2023 di un lavoratore a tempo pieno a prezzi costanti è stato pari a 30.844 euro, nel 2010 era di 33.536. Non solo: in base all’ultimo rapporto Istat, nel triennio 2021-23 di fronte a un aumento dell’inflazione del 17.3%, i salari sono cresciuti solo del 4.7%: sono oltre 12 punti percentuali in meno. Si tratta della perdita più alta degli ultimi 50 anni, attenuata grazie all’azione del sindacato che si è battuto per la riduzione del cuneo fiscale.

Come è povero il lavoro

Altro tema di rilievo è il fatto che mentre un tempo lavorare garantiva un livello di vita dignitoso, ora non è più così: ben 5,7 milioni di dipendenti del settore privato guadagnano mediamente meno di 10.800 euro lordi annui. Secondo l’Istat nel 2023 erano in condizione di povertà assoluta poco più di 2,2 milioni di famiglie (8,4% sul totale delle famiglie e quasi 5,7 milioni di individui (9,7% sul totale. 

L’incidenza è elevata anche per le famiglie con un portatore di reddito da lavoro, che svolge un lavoro come operaio e assimilati (16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022).

Il ruolo del contratto collettivo nazionale

Una buona notizia arriva dalle stime Istat di ottobre 2024, secondo le quali, grazie al rinnovo di importanti contratti nazionali (come il commercio e credito e assicurazioni) e ai conguagli previsti in alcuni di essi, come i meccanici o il legno, si produrrà una crescita dei salari contrattuali del 3.7%. Il tutto a dimostrazione di quanto rafforzare la contrattazione collettiva sia determinante e quanto pesi il ritardo sui rinnovi che, come ci ricorda sempre l’Istat, sono in media di 18,3 mesi per i contratti scaduti.

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Sinopoli: perde il Paese

Con il crollo dei salari è tutto il sistema che perde. “La deflazione retributiva – riprende Sinopoli – ha impattato negativamente sulla domanda interna così come sugli investimenti legittimando un modello mercantilista povero che ha sostituito le svalutazioni della moneta con una svalutazione del lavoro”.

Alla luce di tutto ciò è evidente, continua, “che il sistema italiano di relazioni industriali senza interventi a sostegno della contrattazione collettiva rischia di replicare all’infinito un modello appunto profit led, che continua a scommettere sul costo del lavoro piuttosto che sul cambiamento della specializzazione produttiva e sull’aumento dei salari anche nell’ottica di rafforzare la domanda interna”.

Le responsabilità della politica

La legislazione che ha progressivamente legittimato l’uso della precarietà, conclude il presidente della Fondazione Di Vittorio, “è una delle cause della nostra specifica crisi: la discontinuità lavorativa e la sottoccupazione rappresentano una delle ragioni del declino dei nostri salari. La proposta di legge sul salario minimo è una novità importante perché accoglie molte delle osservazioni che la Cgil ha fatto in questi mesi".