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Paghe da fame, scarse tutele e sfruttamento, con oltre la metà dei lavoratori che guadagna meno di 8 euro l'ora. Lo rivela un’inchiesta sul lavoro nei beni culturali condotta dal movimento “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, presentata ieri (30 ottobre) alla Camera dei deputati, alla presenza di diverse sigle attive nel comparto, dall’Anai (Associazione nazionale archivistica italiana) a Federculture, dall’Aib (Associazione italiana biblioteche) a Italia Nostra, da Assotecnici alle organizzazioni sindacali Usb, Uilbact, Fp Cgil.
Ciò che emerge dall’inchiesta è una realtà sconcertante, fatta di professionisti che lavorano per pochi spiccioli e che dichiarano cifre annue bassissime. A volte sotto la soglia di povertà. Tutto questo mentre il mondo dei musei italiani è in continua espansione. Un dato, quest’ultimo, che non può che apparire normale nel Paese che racchiude in sé la metà del patrimonio culturale globale. Come emerge dalla fotografia dei musei sviluppata dal Boston Consulting Group, in collaborazione con il Mibac: 27 miliardi di euro, pari all’1,6% del Pil e 117 mila occupati, con stime di crescita fino a 200 mila nei prossimi anni. E con 53 milioni di visitatori che hanno generato proventi per circa 280 milioni di euro.
Tutto bene sembrerebbe. Tutto tranne il lavoro, appunto. Secondo quanto rilevato dallo studio, il 63% dei professionisti della cultura guadagna meno di 10 mila euro l’anno (ovvero meno di 850 euro al mese, escludendo anche tredicesima e quattordicesima), con un 38% che addirittura in dichiarazione dei redditi ha cifre inferiori ai 5 mila euro. Redditi che per molte aree d’Italia si collocano sotto la soglia di povertà assoluta. Non solo. Si registrano guadagni tra i 10 e i 15 mila euro per il 17%, tra i 15 e i 20 mila per l’11%, mentre solo l’8% guadagna tra i 20 e i 30 mila euro.
Non va meglio sul fronte della paga oraria. In questo caso, la metà dei professionisti rivela di guadagnare meno di 8 euro l’ora, con addirittura il 12% che riceve una retribuzione di meno di 4 euro. Insieme a quelli che guadagnano tra 8 e 12 euro, in media il 78% dei professionisti guadagna meno di 12 euro l’ora. Solo un terzo dei lavoratori intervistati guadagna oltre i 12 euro. E si sta parlando di lavoratori specializzati, tre quarti dei quali con una laurea magistrale o un titolo superiore.
Le cose vanno forse anche peggio sul versante dei contratti, dove solo il 7% dichiara di avere quello nazionale di Federculture, mentre molte figure professionali non hanno nemmeno un riconoscimento formale e spesso dai vari enti sono utilizzati inquadramenti tra i più diversi: sorveglianti, addetti, assistenti e tanto altro, con un ruolo opaco tra la guida e il semplice vigilante. Il contratto più usato è così quello multiservizi (22%), seguito da commercio (18%), pubblica amministrazione (16%), cooperative sociali (14%), turistico (5%), fino addirittura al ccnl metalmeccanici. Ma tutto questo riguarda i più “fortunati”, vale a dire quelli a cui un contratto è riconosciuto. Perché moltissimi sono impiegati come “volontari” involontari, privi così di ogni tutela e retribuzione: secondo stime della Filcams Cgil, in Italia lavorano nei beni culturali oltre 500 mila volontari (interessante notare come ben il 78% di chi ha aperto la partita Iva sia diventato libero professionista per obbligo e non per scelta).
“C'è un'immensa disparità di trattamento tra i singoli lavoratori, mentre spesso si creano conflitti tra i dipendenti e i liberi professionisti – dichiarano all'associazione ‘Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali’ –. Ogni ente, statale o privato, fa come più gli aggrada. Agendo spesso al massimo ribasso secondo un mero interesse economico. Nella maggior parte dei casi questo dipende dalle condizioni dettate dagli appalti, che inducono poi a risparmiare sul costo dei lavoratori. Dipende dagli enti locali, a loro volta vittime delle varie leggi finanziarie in cui si tagliano continuamente i fondi alla cultura; ma dipende soprattutto dalla mentalità dei privati, che per la mancanza di regole e tutele sfruttano al massimo gli addetti, tra volontariato e partite Iva. I nostri professionisti, iper-formati, troppo spesso sono così costretti ad andare all’estero”.
Chi resta è costretto ad accettare condizioni capestro, proprio perché la concorrenza è spietata e nel settore prevalgono tariffe bassissime. “Semplicemente, un mondo senza regole e sfilacciato, sempre più difficile da intercettare – concludono gli esponenti del movimento –. Riteniamo necessaria una nuova e più efficace alleanza tra lavoratori e rappresentative sindacali: i primi per ovvi motivi interessati all’abbandono dell’accettazione di pratiche di sfruttamento, i secondi attori principali del necessario cordone sanitario che provi davvero a proteggere il lavoratore”.
Oltre a portare alla luce un settore del mondo del lavoro da troppo tempo dimenticato e che si presenta in condizioni critiche, l'associazione “Mi riconosci?” avanza richieste ben precise. Prima di tutto maggiori tutele per i lavoratori; poi una norma che limiti l'uso del volontariato; un nuovo regolamento che riveda i criteri di appalti ed esternalizzazioni; l'applicabilità del giusto ccnl per gli addetti del settore cultura.
“Il mondo dei beni culturali pone delle richieste serie e urgenti e come sindacato dobbiamo raccogliere questa sfida – ammette Danilo Lelli, della Filcams Cgil nazionale –. La contrattazione è l'unico strumento davvero efficace per intervenire; in questo caso la sfida è per una contrattazione inclusiva, che intervenga sui tanti lavoratori con contratti atipici e soprattutto su quelli che ne sono privi, costretti a lavorare a partita Iva o con prestazione occasionale. Il punto principale è il riconoscimento della professionalità, in un settore che per sua natura ne è ricco. I lavoratori, spesso giovani, sono altamente formati e dobbiamo offrire loro le migliori condizioni di lavoro. Non è un caso che molti di essi vadano all'estero, dove spesso trovano un sistema più accogliente”.
Ma i sindacati del settore sono impegnati anche su un altro decisivo versante, quello del riconoscimento delle tutele dei lavoratori nei (frequenti) cambi di concessione. “Anche in questo caso – conclude Lelli – le difficoltà non mancano, perché se con grandi gruppi come Ales, che gestiscono importanti siti, riusciamo a intervenire, come con il recente rinnovo dei contratti di secondo livello, è più difficile in tal senso muoversi con i piccoli musei e gli enti privati, per i quali serve una normativa più chiara. Proprio per tale ragione, ritengo che iniziative come quella messa in campo con la realizzazione dell’inchiesta siano molto importanti per una collaborazione che ci aiuti a intervenire in questo settore, che può e deve essere una ricchezza per il nostro Paese”.