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PORDENONE – Perché venire via dal Pakistan a piedi, mesi di viaggio e privazioni, per essere poi sfruttati, sottopagati, anche malmenati? La risposta di Humayun Khan, occhi azzurri che guardano lontano, fa capire tante cose: “Per i miei figli voglio un mondo migliore, che possano prendere in mano una penna e non un fucile”. Parole che non hanno bisogno di spiegazioni, che arrivano dritto al cuore. Quando uno è qui per lavorare, ma non conosce una parola di italiano, figuriamoci leggere un contratto, è quasi automatico finire nelle mani di un caporale.
Di fronte a un mondo profondamente ingiusto e diseguale, senza uno straccio di istruzione non può esistere la speranza di un futuro migliore, si va poco lontano. “A volte qui c’era tanto lavoro - racconta Humayun - per questo alla mattina, alle 7, andavamo nei campi, fino alle sei di sera. Poi di notte ci mandavano a spostare i polli, dalle undici alle cinque di mattina. E poi alle 7 dovevamo di nuovo andare nei campi. Facevamo doppio lavoro, 14 ore al giorno. Non potevamo rifiutarci, abitavamo con lui. E chi si rifiutava veniva punito”.
Sfruttati notte e giorno
“Lui” era il caporale, pakistano fra i pakistani, ma pronto ad approfittare dei suoi connazionali. Dieci ore passate nei campi e notti in un allevamento di polli, sottopagati e anche truffati da caporali che si sono intascati migliaia e migliaia di euro e non hanno avviato alcuna procedura regolarizzazione, 46 migranti, nel 2021, hanno bussato alla porta della Camera del Lavoro di Pordenone. “Eravamo costretti a dare tutti i soldi al capo, abitavamo con lui, non potevamo ribellarci. Ci siamo comportati bene. Ma siamo stati lasciati senza permesso di soggiorno, senza soldi, senza lavoro, alcuni anche senza una casa. Per fare domanda per la sanatoria, per ottenere i documenti, si era fatto pagare migliaia e migliaia di euro, dai 3 ai 7mila”.
Il permesso di soggiorno per sfruttamento
Due anni dopo i giovani lavoratori pakistani hanno ottenuto dal questore il permesso di soggiorno per lo status di sfruttamento. Un record italiano, una vicenda con pochissimi precedenti, visto che in un caso analogo a Napoli erano stati sei i lavoratori migranti che avevano ottenuto per gli stessi motivi il permesso di soggiorno. I 46 lavoratori, pakistani e afghani, tutti residenti nel pordenonese, lavoravano anche in provincia di Udine e nel vicino Veneto. Oggi, secondo le informazioni disponibili, i loro caporali, entrambi pakistani, si trovano uno in Gran Bretagna e l’altro nel paese d’origine.
Quando i caporali se ne sono andati i migranti si sono trovati senza soldi e documenti, erano disperati, non avevano neanche il denaro per mangiare. Si sono rivolti alla Cgil e da quell’incontro è partito il percorso che ha portato da un lato a un’indagine penale, dall’altro al cammino burocratico concluso con il permesso di soggiorno. Per la prima cosa è stata ricostruita la loro condizione lavorativa e di vita. Quindi, è stata formalizzata la denuncia che ha fatto partire la procedura di cui la Procura si è occupata per due anni, analizzando i singoli casi.
Sotto scacco del caporale
Sajid Abid Mahmood racconta: “Non sapevo cosa fosse la busta paga, tanto meno un contratto di lavoro. Mi aveva proposto 5 euro all’ora, mi sembravano tanti. Lavoravo quasi tutti i i giorni del mese, anche durante le festività. Non potevamo rifiutarci, lui ci spiegava che avevamo firmato un contratto dove c’era scritto nero su bianco che decideva sempre lui. Avevamo firmato, ma non sapevamo leggerlo. È andata avanti così per due anni, buste paga di 300/400 euro al mese. Senza i documenti noi eravamo a zero. Ci ha detto che ci avrebbe preso un acconto di 2000/2500 euro per fare i documenti. Avremmo pagato lavorando, soldi per l’affitto, il cibo, le tasse e la sanatoria. Ha preso migliaia di euro da ognuno di noi, poi è andato via. Inshallah grazie alla Cgil”.
L’assistenza della Flai Cgil di Pordenone
“Alcuni lavoratori pakistani si sono presentati nella sede della Flai Cgil di Pordenone - racconta la segretaria generale Dina Sovran - chiedendo aiuto perché erano stati truffati dai loro caporali. La vertenza è stata lunga e ha portato alla luce un vasto giro di sfruttamento. Dietro ai due pakistani adesso rinviati a giudizio ci sono anche le aziende italiane che, consapevoli o meno, hanno permesso che questi lavoratori venissero sfruttati”. Si accendono i riflettori sulle quasi quotidiane, insopportabili tragedie che avvengono nel Mediterraneo centrale, ma anche su storie come queste, di uno sfruttamento che sembra quasi ‘normale’.
Di fatto si paga la tangente ai connazionali già inseriti nel mondo del lavoro, pur di inviare i (pochi) soldi guadagnati alle famiglie rimaste in Pakistan. In una terra che ha storicamente conosciuto le migrazioni per sfuggire alla miseria e conquistare una vita dignitosa, in quel Friuli dove si produce vino di gran qualità, la piaga del caporalato è ancora aperta. Le 75 piccole bandiere diverse, una per ogni nazionalità di chi ha lavorato in questa regione, sono una fotografia che descrive più di tante parole la realtà delle migrazioni, che si susseguono, come le stagioni, nonostante qualcuno cerchi stupidamente di contrastarle.
Friuli terra di emigrazione, Friuli terra di immigrazione, dove 9 lavoratori su 100 sono irregolari, tasso che sale a 17 in agricoltura secondo l’elaborazione Ires. Nasir, Bashir, Khalid hanno fatto viaggi lunghissimi, sfidato la sorte, sono stati picchiati, derubati, taglieggiati nell’est da presunti tutori dell’ordine, traditi dagli stessi loro connazionali diventati caporali, costretti a vivere in condizioni inaccettabili, sottoposti a turni massacranti. Una spirale perversa che si può, si deve interrompere.
Per raccontare la storia di 46 lavoratori coraggiosi, in una serata a loro dedicata intervengono Maurizio Marcon, segretario generale della Cgil di Pordenone, Don Paolo Iannacone, presidente del centro Balducci di Udine, Alessandro Russo, Ires Friuli Venezia Giulia, Davide Cardia, comandante provinciale della Guardia di Finanza, Marco Paggi, avvocato diritto del lavoro e diritto dell’immigrazione, Ivana Coloricchio, direttrice patronato Inca. Si parla di integrazione fra le rosse bandiere della Cgil e l’arcobaleno della pace, che non manca mai perché la guerra è una follia che tutto cancella.
“O i campi si lavorano da soli, oppure qualcosa non torna nella narrazione di chi vuole che questi lavoratori restino invisibili, senza diritti”, sottolinea Andrea Gambillara, segreteria nazionale della Flai Cgil. Accanto a lui Jean René Bilongo e Matteo Bellegoni dell’Osservatorio Placido Rizzotto con le loro preziose pubblicazioni che mettono a nudo una realtà intollerabile, che la Flai contrasta facendo sindacato di strada. Le ultime immagini sono quelle di Nasir, Bashir, Khalid e gli altri in Cgil, sui banchi di scuola, perché “l’istruzione e la formazione sono le armi più potenti per cambiare il mondo”, ricordando la lezione di Nelson Mandela.