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L’onda di piena delle proteste no green pass sembra lentamente scivolare via anche da Trieste, dove il pericolo che superasse gli argini esondando è stato fortissimo nelle ultime ore. Prima venerdì scorso, 15 ottobre, d-day annunciato e temuto in quanto primo giorno in cui i lavoratori per raggiungere il proprio posto avrebbero dovuto mostrare il certificato verde. Poi lunedì 18, quando momenti di tensione e scontri tra manifestanti e polizia si sono susseguiti da mattina a sera e il centro dell’azione, dopo le prime ore convulse al porto, si è spostato nel cuore della città, in Piazza Unità d’Italia.
Nel rumore delle polemiche che hanno investito la Lamorgese, il ministro dell’Interno chiamato a spiegare la linea dura che non ha risparmiato idranti e lacrimogeni per sgomberare, e mentre si cerca di rimuovere le scorie di un movimento che ha eletto i portuali a proprio simbolo, ma che in realtà è diventato tutto politico, attraendo dall’intero Paese no pass che poco avevano a che fare con il lavoro al porto, cerchiamo di fare chiarezza con Paolo Peretti, segretario generale della Filt Cgil di Trieste. Il sindacato rosso ha tentato, insieme ai colleghi di Cisl e Uil, di portare avanti una linea razionale e di buon senso, nonostante la confusione e la strumentalizzazione dell’ultima settimana.
Partiamo da una semplice domanda, che pure aiuta ad orientarci nella geografia delle proteste. Che cos’è il Clpt?
Il Clpt è il Coordinamento Lavoratori Portuali Trieste. È un brodo di persone nato cinque anni fa, quando il porto lavorava poco e male. Dopo l’arrivo di Zeno D’Agostino, attuale presidente dello scalo, il Clpt servì a fare gioco di sponda aggiungendosi alle altre sigle sindacali nella lotta contro le cooperative che puntavano sul massimo ribasso, impoverendo e svalorizzando il lavoro nello scalo triestino, anche per via della concorrenza del porto di Capodistria, distante appena un miglio e mezzo marittimo. D’agostino ha rilanciato il porto e ha cercato di restituire dignità ai lavoratori, ma il Clpt resta un amalgama composita di persone che si individuano nei fuoriusciti di Cgil, Cisl e Uil, nelle frange del tifo da stadio, fino ad arrivare agli ambienti di estrema destra uniti dalla forte tendenza all’indipendentismo triestino, che si richiama alla extraterritorialità ed extradoganalità del porto citata nell'allegato VIII al trattato di pace del 1947. A lavoratori e imprese che operano nel porto viene promessa la detassazione. Il Clpt rivendica anche un contratto di lavoro dedicato esclusivamente a questo porto. Il Clpt, che non risulta più affidabile, anche se non rappresentava e rappresenta la maggioranza dei lavoratori portuali, cinque anni fa garantiva la pace sociale, un elemento fondamentale per la reputazione del porto in Europa, per poter assicurare che questo scalo non si fermasse mai.
Di fatto quali sono le condizioni specifiche all’interno del porto di Trieste e qual è la vostra linea?
Posto che, come Cgil, abbiamo sempre detto che la via maestra per uscire dalla pandemia è la campagna vaccinale, per quel che riguarda il porto di Trieste senza dubbio la norma che impone il controllo del green pass mette in difficoltà la logistica. In un porto internazionale si incrociano, ogni giorno, ogni ora, centinaia di persone. C’è tutto un mondo di lavoratori che arriva, di marittimi che devono scendere o salire sulle navi, che giungono in porto o salpano, che cambiano equipaggi. Ci sono gli spedizionieri. C’è un brulicante andirivieni nel quale il controllo obbligatorio del certificato verde non è semplice e lineare come può esserlo in un luogo di lavoro meno complesso quale una fabbrica o una scuola. Per questo abbiamo sempre sostenuto che l’adozione dell’obbligo di controllare il green pass, al netto della difficoltà operativa, aveva bisogno di regole certe. Non basta controllare i varchi del porto: in un porto i varchi sono teorici. E poi, dal momento che dovrebbe essere il datore colui che certifica il possesso del green pass dei propri dipendenti, come dovrebbe procedere un armatore ungherese o filippino? E per i vaccini come ci regoliamo? Ad esempio, a Trieste tanti portuali sono stranieri e sono stati vaccinati con lo Sputnik. Insomma, se lasciamo stare le strumentalizzazioni politiche è comunque oggettiva la difficoltà di esigere questa norma in un porto internazionale. Ecco, diciamo che in questa complessità migliaia di persone si sono coalizzate con il Clpt, rendendo trasversale, di fatto, il movimento. Il corteo dei 15mila, l’occupazione del varco 4, i riflettori della stampa nazionale, i portuali usati come un simbolo sono tutti elementi che hanno fatto perdere di vista le motivazioni iniziali. I portuali sono diventati l’emblema della protesta, ma ormai non erano che una piccola parte dei partecipanti ai cortei e ai presidi in cui c’erano persone arrivate da tutta Italia.
Uscendo dal porto, qual è il tema vero?
Da noi a Trieste è, più in generale, l’esigibilità del decreto e il modo in cui la situazione è stata gestita dall’Asugi, l’azienda sanitaria triestina e isontina. Qui abbiamo le file più lunghe di tutto il Paese di fronte alle farmacie che effettuano tamponi. Perché un trenta per cento di lavoratori non sono vaccinati e sono troppi i test settimanali che servono perché tutti possano rinnovare, di volta in volta, l’efficacia del lasciapassare. L’azienda sanitaria deve dare una risposta. La risposta doveva essere complessiva, prima ancora che all’interno del porto, dove per altro la risposta è arrivata. Per questo, per noi, la vertenza prettamente sindacale, per quanto riguarda i portuali, si è conclusa già da tempo.
Cosa resta sul campo di questa battaglia, anche per voi sindacati confederali?
Intanto, materialmente, tantissima polizia in una città poco abituata a tale presenza e l’attesa per quello che accadrà venerdì, sabato e domenica prossimi, quando altri no green pass arriveranno da tutta Italia. È stato comunque un disastro e c’è un tessuto sociale da ricucire tra i lavoratori del porto e all’interno della città. Per noi questa è stata una vicenda enorme, in città – e non solo – ha avuto una grandissima risonanza. Ne usciamo sicuramente con la necessità di far chiarezza. Con la necessità di capire se il nostro messaggio, la nostra linea, siano stati compresi fino in fondo, al di là degli sforzi che abbiamo fatto per illustrarli fin dall’inizio a delegati e iscritti.