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C’è ancora attesa per i lavoratori Alitalia, c’è ancora incertezza nelle loro vite. Passati per anni attraverso una implacabile riduzione del personale, un progressivo prosciugamento salariale e l’intensificarsi dell’impegno professionale, hanno continuato a garantire il pieno regime della compagnia. Tanti di loro, da troppi anni ormai, non possono permettersi nemmeno di chiedere un prestito, perché la loro busta paga parla tanto di crisi e poco di futuro. Abbiamo ascoltato alcuni di loro, mentre al Mise si consumava l’ennesimo incontro interlocutorio e veniva rimandato tutto, ancora una volta, al prossimo tavolo.
Sara, impiegata a terra
Lavoro in Alitalia da 20 anni e mi ritrovo oggi a vivere il terzo fallimento della compagnia. Ormai noi lavoratori lo viviamo sempre più come se fosse una ordinarietà nella straordinarietà, ma ogni volta ci troviamo ad affrontare la perdita di posti di lavoro, qualcosa di cui forse fuori non c’è una chiara percezione: nel 2008 ne abbiamo persi 8.000, nel 2014 altri 3.000. E in più ci siamo visti ritoccare in entrambi i frangenti il nostro contratto, che per quanto riguarda me e la categoria del personale di terra è arrivato ai minimi storici, non è stato più rinnovato. Per questo la nostra preoccupazione è grande in questo momento, non vediamo soluzioni. Continuiamo a garantire i servizi e la nostra professionalità, ma dall’altra parte vediamo che per l’azienda il dipendente è l’ultimo dei pensieri, perché è proprio sul dipendente che ricade alla fine il peso di tutte le incapacità manageriali. Noi che lavoriamo nel sito aeroportuale vediamo bene che altre compagnie stanno prendendo gli spazi che Alitalia sta lasciando, un po’ per approssimatività manageriale, un po’ perché il commissariamento non prevede decisioni in merito all’apertura di nuove tratte o nuove strategie sul lungo raggio: vediamo così altre compagnie crescere, mentre noi continuiamo a garantire i servizi, come sempre. Ma i tempi commissariali si avviano per la seconda volta alla fine e all’orizzonte non si vedono soluzioni, semmai ricomparire persone che conosciamo bene e che sono state dietro i precedenti fallimenti. Vorrei che questo Governo fosse consapevole di questo e che ci desse delle garanzie in termini di solidità e di futuro.
Arriveremo all’autunno, alla fine dell’amministrazione straordinaria, e il lavoratore Alitalia si ritroverà ancora una volta con la sua impossibilità di programmare una vita: se andiamo in banca a chiedere un prestito, troviamo solo porte chiuse ed è una situazione nella quale ci troviamo da anni. Quando sono entrata, Alitalia era una compagnia aerea statale: dopo poco siamo stati messi in vendita senza nessun tipo di tutela e sembra che nessuno voglia prendersene la responsabilità. È troppo facile dire che è colpa dei precedenti management: ci sono 12.000 famiglie, più tutto l’indotto, che vivono di questo lavoro: questa dovrebbe essere la prima preoccupazione. Una compagnia aerea per un Paese è fondamentale, sia perché decide il flusso del turismo sia perché è parte della ricchezza del Paese, non è possibile ignorare l’importanza di tutto questo.
Spesso, e malvolentieri, leggo che Alitalia fa pagare ai contribuenti i suoi errori: ma questa realtà non è colpa dei lavoratori, che la subiscono quotidianamente, che hanno perso negli anni garanzie e diritti, e guadagnato in precariato e riduzione salariale. Più di questo non possiamo fare. In questo momento storico non possiamo neanche cercare lavoro altrove: ci sono per la maggior parte persone sulla soglia dei 40 e dei 50 anni che non vedono per loro una seconda opzione e vogliono continuare a dare una possibilità alla propria azienda. Vorrei che non ci fosse questa caccia al dipendente Alitalia: la questione è trovare delle soluzioni, che siano positive sia per chi lavora sia per chi usufruisce di questo servizio.
Michele, assistente di volo
Sono in Alitalia da 22 anni. Quella che stiamo vivendo in questi giorni è l’ennesima crisi della Compagnia, che negli ultimi anni ha portato – purtroppo – al licenziamento di tantissime persone, con grosse difficoltà di ricollocamento. Il lavoro degli assistenti di volo sembra leggero e piacevole, visto da fuori, ma non c’è alcuna percezione di quello che c’è dietro: la fatica che comporta, le notti fuori, i fusi orari, le feste passate lontane dai propri cari, l’estate con pochissimi giorni di ferie a disposizione perché è uno dei periodi di maggior impegno per noi. Non è facile conciliare la vita lavorativa con quella privata. E adesso affrontiamo un’altra vertenza e ci troviamo di fronte alla prospettiva di ulteriori tagli dei nostri stipendi, già inferiori agli standard europei per gli assistenti di volo. Rischiamo anche ulteriori tagli al personale, quando siamo ridotti all’osso e per quanto riguarda gli aeroplani siamo al minimo per garantire un servizio adeguato: la composizione dell’equipaggio, soprattutto in alcune macchine di medio raggio, è scesa da quattro a tre elementi. Insomma, i carichi sono sempre maggiori e gli stipendi diminuiscono.
Alla precarietà ormai siamo quasi abituati. È assurdo pensare che la Compagnia di bandiera, un vettore nazionale, sia finita in queste condizioni e non sia mai stato tentato un suo effettivo rilancio. Si parla sempre di salvataggio: quello del 2008, poi quello con Etihad, che è stato anche peggiore, e di salvataggio si sente parlare anche adesso: non serve un salvataggio, serve un rilancio di questa Compagnia, serve investire, prendere aeroplani nuovi per i voli di lungo raggio, per andare nella direzione dove il mercato sta andando. Sarebbe necessario rimettere in piedi la Compagnia di bandiera e farne il fiore all’occhiello di questo Paese. Io e mia moglie lavoriamo entrambi in Alitalia, siamo tutti e due assistenti di volo, e viviamo quindi la stessa angoscia: un sentimento che cerchiamo di tenere lontano dalla sfera familiare, ma non è facile, i bambini la sentono, la vivono, vedono che ci sono più ansia e nervosismo in casa. Abbiamo tantissime coppie in Alitalia che sono entrambe naviganti. Come loro, ci alterniamo, noi due ci vediamo un po’ meno ma uno dei due genitori è sempre presente a casa.
E andiamo avanti in questo modo, sacrificando parte della nostra vita privata. Quella lavorativa è così, un turno, due giorni a casa, e via in questo modo, senza sabati, domeniche, festivi e in quei due giorni che stiamo a casa insieme cerchiamo di concentrare tutto, la famiglia, le amicizie, i nostri interessi personali, facendo però i conti, mano mano che si va avanti, da una crisi all’altra, con turni sempre più complessi e incertezze sempre più grandi.
Massimiliano, manutenzione
Siamo tutti appesi a un filo, non sappiamo come andrà a finire, che cosa ci riservi il futuro: sappiamo solo che è dal 2008 che siamo noi – intendo tutti i dipendenti Alitalia - a pagare una situazione che non dipende da noi. Questo è il terzo fallimento e si parla ancora una volta di esuberi. Il riflesso di questa condizione lavorativa sulle nostre vite è devastante, perché non sappiamo se possiamo dare un futuro alla nostra famiglia, ogni giorno rientriamo a casa senza sapere se il giorno dopo ci sarà ancora questa azienda a darci un lavoro. Ed è così per tutti, Alitalia e indotto. Per chi ha famiglia e figli, ma anche per chi non li ha, perché la precarietà è una e affligge tutte le vite coinvolte. Vorremmo vedere una soluzione, almeno all’orizzonte, la stiamo aspettando da mesi, ma la presentazione di questo piano industriale viene continuamente rimandata. E nel frattempo crescono l’ansia, la preoccupazione. Apriamo i giornali e leggiamo i possibili numeri dei prossimi esuberi, pensate come possiamo sentirci. Dal 2008 abbiamo fatto tanti sacrifici ma non è servito a nulla: il problema di questa azienda non è il costo del lavoro, non è il dipendente, sono le scelte politiche che noi stiamo solo pagando. Spero che una volta per tutte si trovi una soluzione che non preveda altri licenziamenti e che questa azienda venga finalmente rilanciata, e non ridimensionata ancora una volta, perché proprio non lo meritiamo.
Alessia, biglietteria
Lavoro in Alitalia da 20 anni. È dal 2008 che viviamo in questo stato di crisi: a quella del 2008 è seguita quella del 2014 e poi del 2016. E sono i lavoratori a viverle in prima persona, quotidianamente, perché tutti i problemi finiscono addosso a loro. Ogni giorno vediamo il lavoro crescere ed è come se si scontrasse con qualcosa che non conosciamo: da una parte una grande mole di lavoro sul campo e, allo stesso tempo, dall’altra, una continua richiesta di sacrifici, in termini economici e di turnazione. Abbiamo stagionali pagati sempre meno, che lavorano per Alitalia ormai da tante stagioni, non sono più giovani e hanno ancora difficoltà a mettere su famiglia. Quando viene a mancare un contratto di continuità mancano i diritti fondamentali di un contratto a tempo indeterminato – congedi, 104, ecc. – e chi ha familiari a carico, come ad esempio genitori anziani, non può occuparsi di loro.
Tutti i giorni ci troviamo all’interno di crisi che sembrano non appartenerci, perché in aeroporto si lavora senza sosta, 365 giorni l’anno, e l’operativo è sempre sostenuto, visto che tra feste comandate, ferie e viaggi di lavoro non ci sono mai tempi morti. Non si può più parlare di lavoro stagionale, e anche per questo dovremmo batterci, perché le persone che lavorano all’interno dell’aeroporto abbiano un contratto a tempo indeterminato.
In aeroporto lavorano in tutto 40.000 persone – Alitalia e non -, ci sono lavoratori per la manutenzione, per le pulizie, per spostare i carrelli: l’aeroporto è una grande città, una grande possibilità di lavoro e una grande scommessa, ed è l’ora di far capire a tutti che non siamo noi lavoratori ad avere ancora qualcosa da toglierci, dopo tutti questi anni.
Dobbiamo guardare avanti e cercare di ottenere un contratto equo, sicuro per tutti, con quelle tutele che servono per rimettersi in campo sul piano familiare: perché dove c’è lavoro c’è famiglia, c’è possibilità relazionale, c’è il requisito fondamentale per stare bene in questa vita. C’è un generale clima di sfiducia tra noi, ma c’è anche tanta voglia di continuare in questo percorso lavorativo, perché quello che importa adesso è il lavoro: tutti vogliono lavorare.
Michele, comandante
Provengo da AirOne e sono in Alitalia dal 2010: da quando c’è stata la fusione tra le due compagnie. La situazione che stiamo vivendo è veramente stressante, perché sono anni ormai che si ripete. Per quest’ultima crisi in particolare ci troviamo già al terzo rinvio e siamo in attesa di conoscere quale sarà il nostro destino, dal punto di vista occupazionale prima di tutto: sentiamo parlare ancora di esuberi, di tagli salariali, di ulteriori difficoltà per la nostra vita quotidiana. Speriamo, con tutto il cuore, che questo Governo riesca a studiare una soluzione che preveda un rilancio a tutti gli effetti, un piano industriale serio, con un investimento adeguato per acquistare altre macchine, espandersi e rilanciare tutta la Compagnia. Le retribuzioni le hanno già ridotte all’osso, sono addirittura inferiori a quelle delle major europee, i tagli li hanno già fatti e non possono continuare a risparmiare su di noi.
Anche le turnazioni, per quanto rispettino le norme previste, sono proprio al limite della legalità e un certo affaticamento lo creano. Studiando regolamenti di servizio e limiti di impiego abbiamo visto che esistono delle zone grigie, dove non c’è esattamente una regola fissa. Sono punti che andrebbero chiariti, nell’interesse di tutti, per un servizio più regolare e più fluido. L’incertezza nella quale viviamo non è bella e si riverbera nella sfera familiare. I piloti hanno più possibilità di cambiare, hanno delle alternative, la possibilità di essere assunti da altre compagnie, diversi primi ufficiali e qualche comandante sono andati a lavorare all’estero. Io lo farei solo se fossi proprio costretto. Perché dobbiamo lasciare il nostro Paese? Siamo italiani, la situazione si deve risolvere, la Compagnia se gestita bene può andare bene. Speriamo in una nazionalizzazione, perché la nostra visione del privato ormai non è più positiva, e in un piano industriale serio. Ci vogliono le persone giuste che gestiscano bene, i lavoratori non danno problemi: noi lavoriamo, siamo pagati meno dei nostri colleghi europei ma facciamo la nostra parte, e vorremmo continuare.