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Un freno ai caporali del food delivery. È l’obiettivo dichiarato del protocollo sottoscritto in Prefettura a Milano da Assodelivery (associazione che raggruppa i big del settore Deliveroo, Glovo, Just Eat, SocialFood, Uber Eats) e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, che nasce da un’iniziativa del tribunale meneghino, sezione Misure di prevenzione, e dalla procura della Repubblica. L’intesa prevede l’impegno da parte delle aziende a dotarsi di un modello organizzativo anti-furbetti, a non ricorrere agli intermediari per trovare rider da impiegare nelle consegne degli ordini, almeno finché non sarà creato un albo o un registro nazionale, e ad adottare un codice etico entro sei mesi dalla firma.
“Si tratta di un accordo importante e assolutamente innovativo che può diventare un modello esportabile anche in altri territori e che non ha nulla a che vedere con i temi contrattuali in discussione – racconta Massimo Bonini, segretario generale Cgil Milano -. Lo scopo è contrastare l'intermediazione illecita di manodopera e il fenomeno del caporalato, così come ogni forma di sfruttamento dei lavoratori, che le cronache ci segnalano con frequenza sempre più preoccupante”.
Il patto prende le mosse dalla vicenda giudiziaria di Uber Eats Italy, filiale del colosso americano, commissariata dal tribunale di Milano nell’ambito delle indagini per caporalato. Gli inquirenti hanno appurato che i rider venivano reclutati da società terze per poi essere destinati al lavoro nel gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno” si legge nell’avviso di conclusione delle indagini. Si trattava per lo più di migranti richiedenti asilo, provenienti da zone di conflitto come Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan e Bangladesh, e quindi in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale.
L’inchiesta ha accertato che i lavoratori, reclutati nei centri di accoglienza straordinaria, venivano pagati a cottimo 3 euro a consegna, indipendentemente dalla distanza, dal tempo, dalla fascia oraria e quindi in modo sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Erano “derubati” delle mance che i clienti lasciavano, “puniti” attraverso una decurtazione del compenso pattuito se non si attenevano alle disposizioni impartite, sanzionati o estromessi arbitrariamente dal circuito di Uber attraverso il blocco dell’account, a fronte di fantomatiche mancanze. Un sistema di sfruttamento che gli stessi dipendenti di Uber conoscevano bene.
“Nell’accordo è prevista la costituzione di un organismo di garanzia composto da esponenti delle società di delivery e dai sindacati, per intercettare flussi sospetti di prestazioni da parte dei rider – spiega Francesco Melis, di Nidil Cgil Milano -. Ai sindacati spetterà il ruolo di sentinelle sul territorio, con l’incarico di raccogliere le segnalazioni di condotte anomale o potenzialmente illegali e l’analisi dei dati delle prestazioni lavorative comunicati ogni tre mesi dalle singole società”.