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Chimica, tessile, energia, manifatture. Sono i settori che più di tutti, più di altri devono affrontare le transizioni, digitale, energetica, ambientale. In alcuni casi le stanno già vivendo, hanno raccolto la sfida e messo in campo innovazioni, tecnologie, processi. Ma molte devono ancora venire. Per questo per il suo quarto congresso nazionale, a Torino dal 15 al 17 febbraio, la Filctem Cgil si è presa la libertà di cambiare il titolo originale dell’appuntamento nazionale della confederazione in “Trasformare il lavoro crea il futuro”.
“I nostri settori sono quelli che maggiormente subiscono l’impatto dalle transizioni – spiega il segretario generale Marco Falcinelli -. Con quella digitale facciamo i conti da anni. Le nostre imprese hanno tecnologie molto avanzate, sono punti di eccellenza, così come i processi di automazione della produzione e di conseguenza dell’organizzazione del lavoro sono fenomeni con cui ci confrontiamo da tempo. Poi c’è quella energetica, che investirà non solo il settore della produzione ma anche le aziende che usano l’energia come motore delle attività”.
A che punto siamo su quel fronte?
Vetro, ceramica, plastica, i settori cosiddetti “hard to abate”, fortemente energivori, hanno necessità di affrontare questa transizione per arrivare a usare vettori diversi. Ancora per parecchio tempo però avranno bisogno del gas perché è l’unico in grado di arrivare a determinate temperature. Fino a che non sarà sostituito dall’idrogeno, un altro vettore che potrà essere usato nei loro processi.
L’idrogeno è considerato una risorsa cruciale per la transizione energetica, ma ci sono tantissimi modi per produrlo, alcuni sono puliti e altri lo sono molto meno. C’è chi ha previsto che nel 2050 sarà prodotto per due terzi a partire da fonti rinnovabili, con un potenziale di produzione pari a circa venti volte il fabbisogno mondiale di energia. È così?
Sull’idrogeno siamo ancora nel campo della sperimentazione. Quello davvero sostenibile è l'idrogeno verde che si ottiene facendo passare l'acqua attraverso una cella di elettrolisi, alimentata con elettricità generata da una fonte rinnovabile. Il problema è che in Italia non ci sono gli elettrolizzatori, perché sul fronte tecnologico siamo indietro. Le tecnologie sono fondamentali per le transizioni e noi scontiamo anni di mancanza di politiche industriali. Anche sul fronte delle rinnovabili, eolico e solare, acquistiamo tutto dall’estero, dai pannelli ai componenti.
Quali altri ritardi scontiamo?
Per cogliere gli obiettivi che la Ue ha fissato al 2030 e al 2050, è necessario che il nostro Paese investa sulle tecnologie delle fonti rinnovabili e che sblocchi la burocrazia e gli enormi impedimenti che si frappongono tra una richiesta di installazione e un’autorizzazione. In questi ultimi anni è rimasto fermo quasi l’80 per cento dei progetti. Da qui al 2030 dovremmo installare 80 gigawatt di rinnovabili, cioè 8-9 GW all’anno. E invece nel 2022 ne abbiamo installati 3, nel 2021 solo 0,8: siamo in crescita ma ancora non basta. È un collo di bottiglia che il nostro Paese deve risolvere, altrimenti nei prossimi trent’anni dovremo continuare a usare il gas. Noi passiamo per quelli che frenano, che non vogliono il cambiamento, e invece siamo molto ambientalisti, ma dobbiamo fare i conti con la realtà.
Qual è l’impatto della realtà sul lavoro?
Il lavoro subisce l’impatto più drammatico, perché i processi di cambiamento determineranno l’aggiornamento delle competenze, la riqualificazione delle persone. C’è quindi bisogno di sostanziosi investimenti sulla formazione e poi di un grande piano di sostegno economico.
Che cosa proponete?
Un fondo unico per gestire le transizioni, meglio se a livello europeo, per aiutare i lavoratori ad affrontare questo periodo. Gli ammortizzatori sociali non bastano. Il congresso sarà un momento importante per affrontare e discutere queste questioni.
Come arrivate all’appuntamento nazionale rispetto a questi temi?
Sono due, tre congressi che la nostra categoria discute di questi temi. Le caratteristiche intrinseche dei settori che rappresentiamo ci hanno consentito di vedere prima i problemi, da almeno vent’anni ci facciamo i conti e li affrontiamo, anche come elaborazione. Questa discussione è presente negli ultimi documenti congressuali ma anche in quelli precedenti e quelli prima ancora. E purtroppo ciò che scriviamo oggi nei nostri documenti politici non è molto diverso da quello che scrivevamo dieci anni fa.
Perché secondo lei?
Il motivo è sempre lo stesso: in Italia mancano le politiche industriali e si comincia a discutere di questi temi solo quando ci sono emergenze. Nei tavoli che il governo convoca, questa questione è l’ultima in agenda. Il problema è il ruolo dello Stato, cioè l’intervento pubblico nella determinazione delle politiche industriali: non può essere lasciato sempre tutto all’iniziativa privata. Che cosa chiede il pubblico alle grandi aziende come Eni ed Enel per accompagnare i processi di transizione? Nelle strategie non ci può essere solo la massimizzazione dei dividenti per gli azionisti. Quando la Cgil sostiene che serve un’agenzia per lo sviluppo, si riferisce a un luogo politico e fisico in cui si intrecciano le scelte del Paese con quelle delle industrie, le esigenze collettive con quelle private.
Ci sono degli spazi dedicati a questi temi nel corso delle giornate congressuali?
Per il primo giorno, il 15 febbraio, abbiamo organizzato una tavola rotonda a cui abbiamo invitato personalità che hanno ruoli di responsabilità nel mondo delle aziende e delle istituzioni, ma anche ricercatori ed esperti. Il 17 avremo gli interventi delle federazioni Industriall Europee Trade Union ed Energia Epsu per capire come in altri Paesi stanno affrontando il problema della transizione. Perché tutti condividiamo gli obiettivi e pensiamo che il Pianeta vada reso più pulito, ma dobbiamo arrivarci vivi sia da un punto di vista sociale che industriale. Dobbiamo fare in modo che il cambiamento diventi un punto di avanzamento del lavoro e non una difesa dell’esistente, ma questo processo, che siamo pronti ad affrontare, va governato e non subìto.