Li pagano poco e male, eppure il loro lavoro permette alle famiglie italiane di mettere in tavola frutta, verdura e ortaggi di ottima qualità. Per non parlare dei vini che, in una regione come il Veneto, rappresentano una voce importantissima, sia per i consumi interni che per le esportazioni.

A raccogliere le preziose uve che diventeranno il pregiato Valpolicella e l’irresistibile Amarone ci sono tanti, tantissimi Satnam, arrivati dal subcontinente indiano per guadagnarsi da vivere, in cerca di un’esistenza migliore per sé e per le loro famiglie. Ma anche qui, come nell’Agro Pontino o nei vasti campi della Capitanata, diritti e tutele sono una chimera quasi per tutti. E i fenomeni di sfruttamento e caporalato sono come funghi velenosi che spuntano dopo la pioggia.

“The work, the work, just the working life”, cantava il giovane Bruce Springsteen ricordando la vita del padre operaio in fabbrica. Ma a questa vita di lavoro dovrebbe corrispondere un salario decente, orari ben precisi per assicurare il meritato riposo dopo una giornata nei campi, e diritti che invece restano invisibili come la maggior parte di chi si alza prima dell’alba per andare nei campi e nelle vigne.

Sono decine di migliaia, e quasi non passa giorno che le cronache locali non diano spazio a casi di sfruttamento, caporalato o di vera e propria riduzione in schiavitù. Solo per fare un esempio, a luglio la Flai Cgil ha presentato 15 denunce per conto di altrettanti braccianti indiani sfruttati nel territorio trevigiano, che vivevano in un casolare con 50 persone senza luce, acqua e gas, e in assenza di ogni presidio igienico sanitario.

Nelle altre province venete le cose non vanno certo meglio, per questo la Flai ha organizzato, per la prima volta nel nord della penisola, le Brigate del lavoro contro il caporalato. Cinque giornate a intercettare i braccianti, prima che inizino il turno di raccolta nei campi e quando stanno tornando a casa, con obiettivo di informare sui diritti chi rischia di essere sfruttato, e dare contatti per denunciare.

I lavoratori perlopiù sono indiani, pachistani e marocchini, vittime di un meccanismo infernale che interconnette i caporali agli intermediari nei Paesi di origine degli sfruttati. “Dietro lo sfruttamento nei campi di raccolta - denuncia Giosuè Mattei, segretario generale della Flai veneta - ci sono raffinati metodi di arruolamento internazionale, che colgono le opportunità date dall’assenza totale di controlli e dalle patologiche normative italiane in materia di immigrazione, a partire dalla legge Bossi-Fini per finire ai cosiddetti ‘decreti flussi’ disciplinati dal governo Meloni”.

I furgoni delle Brigate del lavoro attraversano territori rinomati per le produzioni agricole, i distretti di Bardolino, Lugana, Soave, Valdadige, Valpolicella, filari su filari di uve pregiate, meli a perdita d’occhio, e ancora zucchine, pomodori. Grazie a Sonia Kaur, Flai Roma e Lazio, e Pashmeen Kaur, Flai Pordenone, la barriera quasi insormontabile della lingua viene superata, perché questi uomini e talvolta queste donne non conoscono una parola di italiano, né delle altre principali lingue europee, parlano in genere punjabi o bengali.

Ma basta portare acqua da bere, un cappellino per ripararsi dal sole, una pettorina fosforescente per evitare di essere investiti la notte, per stabilire un contatto e farsi raccontare quei meccanismi infernali che li portano a essere indebitati fino a 20 mila euro per poter arrivare in Italia e lavorare.

I sindacalisti della Flai e gli attivisti delle Brigate, studenti universitari o loro coetanei delle associazioni umanitarie, come il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, Sbilanciamoci!, Lunaria, si prodigano nel dare loro volantini in lingua madre per far capire che in Italia esiste la disoccupazione agricola nei periodi di stop alla raccolta, e che il lavoro nei campi ha diritti e tutele che devono essere rispettati. A maggior ragione in un panorama generale quantomai depresso per le produzioni italiane ma non certo per l’industria alimentare.

Un made in Italy di qualità a cui le famiglie italiane, anche quelle in ristrettezze economiche, non intendono rinunciare, nonostante gli aumenti dei prezzi, spesso e volentieri provocati da piccole e grandi speculazioni. “Sono più di 20 mila i braccianti di questo distretto - riepiloga la segretaria scaligera Mariapia Mazzasette - il 90 per cento di loro ha contratti stagionali, segue il ciclo delle raccolte, quattro su cinque sono migranti. Per questo è essenziale che conoscano i meccanismi che regolano la disoccupazione agricola, e che si rivolgano al sindacato per ottenerla”.

Ogni volta che si risale sul furgone, restano impressi nella mente gli sguardi, all’inizio interrogativi e alla fine riconoscenti, di questi migranti, spinti nel nostro Paese dalla necessità e quasi sempre vittime di vere e proprie organizzazioni criminali.

Le Brigate del lavoro della Flai stanno battendo la Penisola in lungo e in largo, per raccontare che cambiare si può e si deve. La Fondazione Metes, con Tina Balì, elabora delle vere e proprie ‘linee guida’ per allargare il campo del sindacato di strada. Diritti in campo, nel solco degli insegnamenti di quel grande sindacalista che è stato Giuseppe Di Vittorio, che anche da parlamentare non smetteva di battere i campi della ‘sua’ Puglia per insegnare ai suoi conterranei spesso analfabeti che nessuno al mondo deve essere sfruttato. Una memoria che si è fatta storia, storia del sindacato dell’agroindustria della Cgil, la Flai.

Ai lati di queste strade in aperta campagna non di rado ci sono cartelli con piatti di cibo, dalla pastasciutta ai panini, fino alle salsicce. “A disegnarli è un artista di strada di queste parti, lo fa per coprire svastiche che purtroppo in Veneto sono un terribile passatempo di gente senza cervello – dice Vlado Lukic, della Flai Verona, autista del pulmino dei diritti -. Appena ne trova una, l’artista di strada la ‘cucina’ coprendola con un bel piatto fumante. Lui si fa chiamare Cibo”.