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Siamo il Paese con il più alto numero di giovani che non lavorano né studiano, i cosiddetti Neet: circa il 21% dei giovani tra 15 e 24 anni. Siamo tra i Paesi europei con il tasso più elevato di dispersi: oltre il 13% di giovani tra i 18 e i 24 anni ha soltanto la licenza media, quindi non assolve l’obbligo scolastico fissato a 16 anni. Siamo il Paese con una stima di 340.000 minori al di sotto dei 16 anni occupati illegalmente, vale a dire il 7% della popolazione in età di lavoro, stando ai dati che risalgono purtroppo al 2013 e sono frutto di una ricerca condotta dalla Fondazione Di Vittorio e da Save the Children.
Dalla prima inchiesta della Cgil del 2000 e come indicato anche dal Cnel, occorrerebbe implementare un sistema di statistiche sul lavoro minorile che preveda indagini a valenza nazionale e a cadenza periodica sulle diverse componenti del lavoro minorile nel Paese, dal momento che il bisogno conoscitivo sul fenomeno è ampio. Una richiesta rimasta ancora inascoltata da parte delle istituzioni pubbliche e in particolare del ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Eppure se fosse stato ascoltato più di dieci anni fa il primo segnale di allarme che la Cgil ha lanciato sul fenomeno, dicendo chiaramente che il lavoro minorile era ancora diffuso nel nostro Paese, forse non avremmo un numero così elevato di giovani Neet con bassi titoli di studio. Fin dall’inizio la Cgil aveva messo in evidenza come nel nostro Paese non si tratta di cercare minori sfruttati nelle miniere, nella produzione di tappeti, come ci ha insegnato la storia di Iqbal Masih in Pakistan, bambino operaio e attivista, diventato un simbolo della lotta contro il lavoro minorile nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo. In Italia si tratta di cercare giovanissimi commessi, camerieri, baristi, ‘aiutanti artigiani’, che nella maggior parte dei casi - quasi 3 ragazzi su 4 - lavorano per la famiglia, aiutando i genitori nelle loro attività professionali nel mondo delle piccole e piccolissime imprese a gestione familiare. Non pochi lavorano nella cerchia dei parenti e degli amici oppure per altre persone.
Il lavoro minorile è presente in tutto il Paese, ma non con uguale intensità: il rischio di una presenza di ragazzini al lavoro è molto alto nelle regioni del Sud, nelle periferie delle aree metropolitane, ma anche nelle zone cosiddette avanzate, ad esempio del nord est. Le esperienze di lavoro di questi giovanissimi vengono svolte prevalentemente in quattro ambiti: la ristorazione, il settore agricolo, il commercio e l’artigianato. Un ragazzo su 5 dei 14-15enni che lavorano svolgono un’attività di tipo continuativo (quasi 55.000), soprattutto in ambito familiare e nei settori della ristorazione e alle attività artigianali. C'è poi un'area particolarmente a rischio di sfruttamento: si tratta di quei minori che vengono fatti lavorare di notte (dopo le 22.00), o che svolgono un lavoro continuativo lavorando nelle ore serali (dalle 20.00 alle 22.00) e che magari interrompono la scuola per lavorare. O per i quali il lavoro interferisce con lo studio, il lavoro non lascia tempo per il divertimento con gli amici e per riposare, il lavoro viene definito moderatamente pericoloso. E i numeri non sono affatto da sottovalutare: sono infatti 28.000 i ragazzi coinvolti in attività “a rischio di sfruttamento”, vale a dire l’11% dei 14-15enni che lavorano.
Se si viene bocciati durante la scuola media salgono le probabilità che un minore si avvicini al lavoro precoce, analogo discorso vale per chi prende nel giudizio di licenza media soltanto la sufficienza. Lentamente l’idea di un futuro investito nel mondo del lavoro e non a scuola diventa il criterio che orienta la prospettiva di vita dei ragazzini che cominciano presto a lavorare. È evidente quindi il legame tra il lavoro minorile e quell'ampia fetta di giovani italiani senza diploma e neanche una qualifica professionale, anomalia tutta italiana, che secondo l'Europa dovrebbe calare drasticamente, perché per loro è alto il rischio di un inserimento debole nel mercato del lavoro e di un futuro da lavoratori poveri se non proprio da Neet, senza lavoro e senza formazione.
La pandemia, le scuole chiuse e l'allargamento delle aree di povertà e di disuguaglianza rischiano di far aggravare questo fenomeno. Non basta, come si fa nel Pnrr, dichiarare i giovani un target trasversale del Piano, la questione generazionale va finalmente affrontata mettendo in campo idee chiare, azioni di sistema e progetti specifici.