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“Hello Moto”. O meglio, parafrasando lo spot che ne contraddistingue il marchio, è il caso di dire “Bye bye Moto”. Stiamo parlando della Motorola, colosso Usa della produzione di telefoni cellulari, che dice addio a Torino. Sembra infatti inevitabile la dismissione del Centro ricerche che la multinazionale ha aperto nel capoluogo piemontese dieci anni fa: 333 ingegneri, tutti tra i 30 e 40 anni, saranno licenziati. “Siamo rimasti spiazzati – spiega Luca Sanna, che segue la vicenda per la Filcams Cgil locale –. Sembrava che tutto funzionasse, finalmente il nostro territorio poteva eccellere in un settore diverso dall’auto: quel centro nel cuore della città è un orgoglio e una scommessa su cui avevano puntato in molti, a partire dal Politecnico, che lì mandava i suoi laureati. Ma qualcuno negli Stati Uniti ha aperto un file e ha stabilito diversamente”.
La decisione è stata comunicata ai diretti interessati lo scorso 3 novembre, durante un incontro con il capo del personale di Torino. Una scelta figlia della nuova strategia Motorola, che, in linea con quanto annunciato dal board internazionale del colosso delle telecomunicazioni, vuole concentrarsi “sulla semplificazione del software e del prodotto, per ridurre i costi e velocizzare l’offerta di mercato”. Tradotto in posti di lavoro, significa 3.000 licenziamenti a livello mondiale. Nel nostro paese è prevista anche la riduzione d’organico nelle sedi di Milano e Roma, per un totale di 400 persone lasciate a casa. Quanto al resto d’Europa, “tanti saluti” pure alle divisioni non commerciali di Gran Bretagna, Danimarca e Francia.
A Torino, dove la crisi dell’auto colpisce più che altrove, questo piano industriale arriva in un clima già pesante. “Si pensava che il settore delle telecomunicazioni – osserva Sanna – ne potesse uscire indenne. Anche perché secondo noi la crisi non c’entra molto. Qui si tratta di scelte sbagliate a livello globale, di un management che si è fatto soffiare posizioni di mercato dai concorrenti. E come al solito a pagare saranno i lavoratori”. Nelle difficoltà s’innesta anche un’altra polemica, quella legata a finanziamenti pubblici di cui l’azienda avrebbe usufruito in maniera “indiretta”: sono gli 11 milioni di euro spesi dal Comune per ristrutturare una vecchia fabbrica, la Cir, poi utilizzata dal colosso Usa per allestire il Centro ricerche. La multinazionale smentisce e fa sapere di “non essere a conoscenza di quei costi di ristrutturazione”, dal momento che l’intervento “è stato avviato molto prima che l’azienda decidesse di ampliare le proprie operazioni a Torino” e dunque non è mai rientrato in alcun accordo. Ma in città si parla da anni di quei soldi spesi per un immobile poi finito in mani private.
Nel frattempo, la procedura di licenziamento collettivo va avanti, e per chi perderà il posto c’è un’ulteriore complicazione: Motorola non ha versato i contributi che darebbero diritto alla cassa integrazione e alla mobilità, perché gli ingegneri sono inquadrati come dipendenti di un’azienda di servizi. Visto il momento difficile, le istituzioni sembrano intenzionate a garantire il paracadute della cassa in deroga, mentre il sindaco della città Sergio Chiamparino ha detto di essere addirittura pronto a incatenarsi davanti alla sede del gruppo per far rimanere il centro a Torino. Se ne saprà di più dopo un nuovo incontro tra l’azienda e i sindacati previsto per i prossimi giorni, anche se pare poco probabile che la multinazionale faccia un passo indietro: l’intenzione di delocalizzare il settore non commerciale (forse in Asia) è abbastanza chiara. “A noi interessa che il Centro ricerche resti qui – conclude Sanna –, altrimenti questi giovani, con tutto il loro potenziale, lasceranno Torino, magari per andare all’estero. Perciò chiediamo in primo luogo a Motorola di ripensarci. Se ciò non fosse possibile, stiamo valutando, insieme agli enti locali, le strategie per trovare altre imprese del territorio interessate a bravi ingegneri. Almeno non perderemo questo patrimonio”.