Lotta allo sfruttamento e al caporalato, maggiore sicurezza nei campi e nei luoghi di lavoro, diritto al cibo buono e giusto. E ancora: le ripercussioni delle guerre sul settore e sui lavoratori, le politiche europee, i trattati internazionali di libero scambio. Sono tanti gli ambiti che la Flai deve fronteggiare, capitoli che impegnano il sindacato dei lavoratori dell’agroindustria a 360 gradi. Con il segretario generale Giovanni Mininni tocchiamo i principali.

Mininni, può fare un bilancio dell’esperienza del sindacato di strada, le cosiddette Brigate del lavoro?
Il bilancio è certamente positivo. Le iniziative nazionali sono per ora terminate, anche se stiamo valutando di farne un’altra il prossimo anno: due settimane a Latina, due a Foggia, una a Verona, con cinque equipaggi che hanno battuto in lungo e largo le campagne, affiancati in alcuni casi da componenti della associazioni, perché stiamo dando concretezza alla Via Maestra. Ma le attività proseguiranno a livello provinciale e locale, anche in funzione delle campagne di raccolta: un’occasione per andare sul territorio e accendere i riflettori sui problemi di quel posto. Inoltre rappresentano un momento di crescita, per migliorare, per aggiustare il tiro su come essere presenti e presidiare. La particolarità del lavoro in agricoltura è proprio questa: i lavoratori te li devi andare a cercare, non li trovi fuori da un sito produttivo o nella mensa, ma agli incroci delle strade bianche, in campagna.

Stefano Carofei/Sintesi
Stefano Carofei/Sintesi
Proteste per la morte di Satnam Singh (Stefano Carofei/Sintesi)

Agricoltura è ancora sinonimo di sfruttamento dei lavoratori. Quali interventi sono necessari secondo lei per ridurre l’illegalità nel settore?
Se sostenessimo che tutta l’agricoltura è sfruttamento diremmo una cosa imprecisa, perché noi abbiamo rapporti e facciamo contrattazione nelle aziende agricole. Certo è che i dati e le statistiche confermano che è un settore ad alta irregolarità, secondo solo a quello dei servizi alla persona. Partiamo da quanto successo questa estate dopo la morte di Satnam Singh. Ispettorato del lavoro e carabinieri hanno ispezionato in soli tre giorni un terzo delle aziende che abitualmente controllano ogni anno e hanno riscontrato una percentuale di irregolarità superiore a quella denunciata dall’Istat.

L’omicidio di Satnam ha anche acceso i riflettori sul territorio: nei mesi successivi abbiano notato un aumento delle giornate denunciate, una diminuzione del lavoro nero e una maggiore applicazione del contratto. Cosa confermata anche dalla ministra del Lavoro: dopo gli eventi di Latina le aziende bene o male si sono messe maggiormente in regola perché c’era più controllo. Lo stesso era successo anche a Foggia negli anni scorsi.

Inizia la kermesse al Teatro Duse di Bologna. Tre giorni di dibattiti nei quali il sindacato parlerà col Paese
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Che cosa significa questo?
Che quando giriamo nei territori e chiediamo visite ispettive, il territorio reagisce mettendosi in regola, rispettando di più i salari. Quindi c’è un problema di controllo che manca. Questo governo vuole continuare a ignorare il problema perché è connesso alle risorse. Nel collegato agricoltura hanno scritto che si faranno nuove assunzioni all’ispettorato del lavoro solo nel momento in cui si libereranno posti. Quindi non ci saranno nuove assunzioni ma, se va bene, si manterrà il numero attuale. Ma non ne usciamo se non facciamo un investimento forte sull’assunzione di personale ispettivo, che dovrebbe essere per lo meno triplicato.

Capitolo guerre. Quanto e come hanno impattato sul settore e sui lavoratori?
Uno dei problemi principali è la speculazione sul cibo, che prosegue tuttora. L’agricoltura e l’agroindustria sono inoltre settori energivori e quindi risentono molto del rincaro del costo dell’energia. Quello che sta succedendo a livello internazionale, la costante e continua incertezza, l’accensione di nuovi focolai di guerra, impattano di volta in volta su un pezzo dell’agricoltura, lì dove l’agroalimentare rappresenta una parte trainante dell’export del Paese interessato dal conflitto.

Egoisticamente, questo è uno dei motivi per cui anche ai lavoratori, oltre che ai popoli e agli Stati, conviene che si faccia la pace. Penso poi che sia necessario riprendere le fila di alcuni temi importanti e che questo lo debba fare l’Europa, che sta dimostrando la sua debolezza e inadeguatezza: ha ceduto il posto agli Stati Uniti, ha rinunciato a essere soggetto autonomo, capace di fare mediazione. In questi conflitti si sono usati due pesi e due misure. Avremmo dovuto mandare armi ai palestinesi per difendersi dall’invasione, come abbiamo fatto con l’Ucraina. E invece aiutiamo gli aguzzini e non il popolo oppresso.

È preoccupato?
Sì perché questa Europa si sta dimostrando poco coraggiosa e supina alla logica della guerra. E nel suo rapporto, Draghi ha indicato la necessità di risollevare le sorti dell’Europa attraverso forti investimenti nell’industria militare.

Le speculazioni sui cibi a cui ha portato la guerra ci porta direttamente al cibo, che dovrebbe essere un diritto ma ancora non lo è, almeno non per tutti.
Anche nel nostro Paese si pone il tema della sovranità alimentare, che non è quella di ministeriale memoria, ma la sovranità nell’accezione della Via Contadina, per cui i popoli sono sovrani nel decidere qual è il cibo buono e giusto che vogliono mangiare. Questa questione ha toccato l’Italia quando sulla spinta inflattiva registrata ultimi anni, i consumi delle fasce delle famiglie più deboli si sono spostati su alimenti di minore qualità, per motivi di disponibilità economica. Noi vogliamo che l’accesso al cibo buono e giusto, di qualità e prodotto senza sfruttamento, sia garantito a tutti anche ai 5,7 milioni di poveri. E comunque la sovranità del nostro Paese, che è all’avanguardia su questo fronte, è continuamente minacciata.

Da che cosa è minacciata?
Innanzitutto dagli accordi internazionali di libero scambio, il Ttip, trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, e adesso dall’accordo Ue-Mercosur (area di libero scambio America Meridionale, ndr), sul quale abbiamo inviato una lettera alla presidente Meloni per chiedere che non lo ratifichi. Per una serie di motivi. Innanzitutto c’è un problema di democrazia: viene definito tra gli Stati con trattative che spesso non sono alla luce del sole e a cui partecipano le multinazionali. Poi, c’è una questione legata agli standard: in quei Paesi i controlli e la sicurezza sui cibi e le coltivazioni sono infinitamente inferiori rispetto a quelli europei e ancora più italiani. Concimi e pesticidi qui vietati lì vengono usati, lo stesso vale per i trattamenti, per non parlare del rispetto dei diritti dei lavoratori. Anni di battaglie, a cui ha partecipato anche il sindacato, per il cibo buono e di qualità verrebbero vanificati da questi trattati.

E sulla Pac, la politica agricola comune, che strada si sta imboccando?
La prima presidenza Von Der Leyen della Commissione europea era seriamente interessata a realizzare il Green Deal, ad attuare la direttiva Farm to Fork con una particolare attenzione alla produzione sostenibile del cibo, con tutto quello che ciò comporta. Dopo la protesta dei trattori e con lo spostamento a destra della Commissione, ci ritroviamo in una fase di passaggio con segnali di arretramento su tanti aspetti che la Flai ritiene importanti. Penso per esempio al regolamento sui pesticidi che è stato ritirato, alla spinta dei datori verso un maggior produttivismo, che porterà a un impiego crescente di pesticidi e acqua in agricoltura. Tutte cose che non possono che aggravare i cambiamenti climatici.

In questo quadro che ci ha delineato, Mininni, che cosa può e deve fare il sindacato oggi?
La pratica sindacale deve fare oggi un salto di qualità su tanti fronti. Primo fra tutti l’immigrazione: le persone che arrivano sui barconi sono le stesse che poi ritroviamo nelle campagne, più sfruttate e ricattabili di altri dai caporali. Per questo abbiamo deciso di sostenere la nave Mare Jonio di Mediterranea Save Humans, perché ci sembra una cosa in continuità con l’attività fatta nei ghetti dal sindacato di strada. Abbiamo così consentito alla Mare Jonio di difendersi, finanziando le spese legali, e di uscire nuovamente in mare pagando il carburante. In questo modo l’altro giorno abbiamo contribuito a salvare 58 vite umane.

Con la stessa filosofia, il 5 novembre sottoscriveremo un accordo con l’associazione Un Ponte Per, che ha missioni in Palestina, Cisgiordania e Gaza, per fornire il nostro contributo quando si tratterà di ricostruire le piccole attività produttive distrutte dagli israeliani, coltivazioni e barche.