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“Durante l’emergenza dovuta alla pandemia del Covid-19 abbiamo chiuso le fabbriche, con scioperi e fermate delle attività produttive, per la salute di tutti. - affermava nei mesi scorsi la segretaria generale delle Fiom Francesca Re David - Ora vogliamo soluzioni per le vecchie e le nuove crisi industriali, tutte senza risposta; vogliamo tavoli di settore sugli asset strategici, il blocco dei licenziamenti e ammortizzatori sociali rinnovati e universali che sostengano l’occupazione, la formazione e la riduzione degli orari, un rinnovato intervento pubblico in economia per dare risposte concrete ai lavoratori e per dare prospettiva all'industria metalmeccanica nel rispetto di vincoli sociali e ambientali. E’ inaccettabile che il Governo possa pensare a nuove politiche industriali senza discuterle con i lavoratori e il sindacato. Confindustria sbaglia quando annuncia di voler superare il contratto nazionale. Il lavoro va valorizzato non impoverito. Dobbiamo rimettere al centro le persone e le loro competenze e difendere e rilanciare il ruolo della contrattazione, a partire dal contratto nazionale dei metalmeccanici”.
Metalmeccanici che lo scorso 5 novembre sono tornati in piazza, ancora una volta, come quel 28 novembre 1969 passato alla storia.
Nel 1969 sono interessati al rinnovo dei contratti oltre 6 milioni di lavoratori: di questi 2 milioni e 380 mila sono metalmeccanici, chimici ed edili. Gli imprenditori, che dopo l’intervento del ministro del Lavoro Donat Cattin - succeduto a Brodolini, prematuramente scomparso nel mese di luglio - sembravano avere ammorbidito le proprie posizioni, in autunno tornano a irrigidirsi.
Alla Fiat tra l’ottobre del 1969 e i primi mesi dell’anno successivo vengono denunciate circa 14 mila persone per 60 reati diversi, che peraltro lo Statuto dei lavoratori in discussione al Senato non considera tali. Il 9 novembre gli edili spezzano l’intransigenza padronale: il contratto siglato prevede aumenti salariali del 20 per cento e altri miglioramenti, 40 ore entro il ’72, diritto di assemblea nei cantieri, nuovi strumenti per il controllo degli infortuni.
Pochi giorni dopo Fiom, Fim e Uilm, a seguito della rottura delle trattative voluta da Confindustria, indicono a Roma per il 28 novembre una manifestazione nazionale per il rinnovo del contratto, la prima manifestazione unitaria dei metalmeccanici nella capitale in quella stagione memorabile di lotte che passerà alla storia come “autunno caldo”.
Nonostante gli inviti a chiudere le saracinesche dei negozi e a tenere a casa i bambini, il successo della manifestazione è enorme: 100 mila metalmeccanici, arrivati con cinque treni speciali e centinaia di pullman, sfilano in un corteo lungo cinque chilometri che riempie piazza del Popolo. A poco più di un mese di distanza, l’8 gennaio 1970, l’accordo vedrà la luce. Tra i risultati più rilevanti: la riduzione dell’orario settimanale a 40 ore, il diritto di assemblea in fabbrica, significativi aumenti salariali, il riconoscimento dei rappresentanti sindacali.
Racconterà Pio Galli, nel 1969 componente della segreteria nazionale Fiom tra gli organizzatori dell’iniziativa di protesta, nel 1997 in Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico: “La manifestazione esplodeva in un crescendo di rumori - campanacci, tamburi, fischietti, megafoni - che turbava l’ordine di una città abituata a ignorare i sacrifici, l’emarginazione, il logoramento fisico e psichico della vita in fabbrica. Ma era anche una festa, un momento di liberazione dal vincolo e dalla disciplina del lavoro alla catena, un’espressione di sé negli slogan gridati e scritti sui cartelli, nei pupazzi portati in corteo. In piazza del Popolo, all’imbrunire, si accesero migliaia di fiaccole. Un elicottero della polizia ci sorvolava, provocando fischi e reazioni. Dal palco dissero che la televisione stava filmando la manifestazione. Quel giorno non cadde un vetro. Centomila metalmeccanici avevano preso possesso della città e sfilato per ore, senza che accadesse un incidente …. Un corteo operaio possente, composto e determinato fece impressione. I metalmeccanici cominciavano a contare”.
“Fu la prima manifestazione sindacale di massa nella capitale dagli anni del dopoguerra - dirà trent'anni dopo Bruno Trentin a Guido Liguori nel libro-intervista Autunno caldo. Il secondo biennio rosso -. E fu certamente la prima di quelle dimensioni. Ma ancora una volta non fu la dimensione - più di 100 mila lavoratori venuti da tutta Italia - il fatto più importante, bensì la mobilitazione che la rese possibile; l’autotassazione di centinaia di migliaia di lavoratori per mandare i loro compagni a Roma; il sacrificio di dover sopportare, per molti di questi, due notti in treno e una giornata massacrante di cortei, per poi ritornare al lavoro all’alba del secondo giorno; la disciplina incredibile di cui furono capaci i lavoratori quando ‘sbarcarono’ in una città terrorizzata da una campagna di stampa senza precedenti; il cordone ‘sanitario’, fermo ma pacifico, con il quale i vari gruppi estremisti furono isolati dai diversi cortei di operai e di studenti che convergevano verso piazza del Popolo; il silenzio totale che interrompeva una manifestazione gioiosa e piena di invenzioni ludiche (nella quale esplodeva la fierezza di ritrovarsi insieme, ognuno con la propria identità di origine, di regione, di comune, di fabbrica) ogni volta che i cortei passavano davanti a un ospedale”.
Scriveva Sindacato Moderno: “La partecipazione dei lavoratori è risultata imponente, nonostante le minacce delle autorità politiche e i divieti dei responsabili della forza pubblica. Sin dalle prime ore del mattino i lavoratori, con treni speciali e colonne di pullman, cominciano a giungere da tutte le province italiane: si formano così due grandiose concentrazioni operaie in piazza della Repubblica e alla Piramide Cestia, le quali, dopo aver percorso separatamente un tratto dell’itinerario previsto, confluiscono in un unico immenso corteo che si snoda per oltre 6 chilometri per le vie di Roma dirigendosi verso piazza del Popolo. Qui, alla presenza di circa centomila lavoratori, dei quali cinquantamila sono convenuti dalle province attraverso l’aiuto e la solidarietà dei compagni di fabbrica e della popolazione, si svolge un comizio unitario …. I tre segretari generali, Macario per la Fim, Benvenuto per la Uilm e Bruno Trentin per la Fiom, ribadiscono le motivazioni e le ragioni della lotta dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale e l’impegno per una più generale battaglia per reali riforme strutturali, sociali ed economiche”.
Ragioni di lotta che 51 anni dopo si ripropongono e spingono nuovamente le tute blu in piazza. Quegli operai, quei lavoratori e quelle lavoratrici, che in questi mesi hanno permesso all’Italia tutta di andare avanti nei servizi, nella produzione e nei consumi. Che hanno continuato a lavorare ininterrottamente nonostante le preoccupazioni e la paura. La paura non tanto di andare al lavoro ma di tornare a casa dai propri familiari ed esporli al rischio, remoto o meno che fosse, di contagio.
“C’è stato un periodo - recitava un bellissimo monologo di Giacomo Poretti - in cui indossare quella tuta blu sporca di olio e di grasso, tornarsene a casa alla sera esausto e cercare di lavarsi le mani che non venivano mai pulite per davvero, avere quelle mani ancora sporche di nero anche il sabato e la domenica, era un segno di orgoglio, un orgoglio che nasceva dalla povertà e che chiedeva dignità e risarcimento. Quell’orgoglio di indossare la tuta blu chiedeva alla vita di essere risarciti per averci fatti partire un quarto d’ora dopo il via”.
Non dimenticheremo abbiamo detto detto qualche mese fa, ma dopo tanti elogi e tante forse promesse abbiamo già dimenticato…