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La Cgil Marche ha elaborato i dati dell’Inps relativi ai lavoratori dipendenti privati (esclusi i lavoratori agricoli). Nella regione sono occupati 417 mila lavoratori dipendenti privati. Un numero che cresce in misura significativa, con un incremento di circa 23 mila lavoratori, pari a +5,8% rispetto all’anno precedente, in cui per la prima volta l’occupazione era tornata a crescere.
Incremento positivo e superiore sia al dato nazionale sia alla media delle regioni del Centro. Rispetto al 2008 i lavoratori dipendenti sono diminuiti di 18 mila unità, pari a -4,2%. Un calo particolarmente importante soprattutto se raffrontato con la situazione nazionale e con quella delle regioni del Centro, dove il numero dei lavoratori dipendenti è tornato ad essere decisamente superiore a quello di 8 anni fa (rispettivamente +4,2% e +4,1%). I lavoratori di genere maschile sono 232 mila, pari al 55,6% del totale, mentre le lavoratrici sono 185 mila, pari al 44,4%.
I giovani lavoratori con meno di 29 anni sono 81 mila e rappresentano il 19,5% del totale. Si tratta prevalentemente di operai e apprendisti. Osservando le tipologie contrattuali emerge che 142 mila lavoratori, pari a uno su tre, ha un rapporto di lavoro part time. I lavoratori part time sono cresciuti in modo significativo rispetto al 2016 (quasi 14 mila unità in più pari a +10,1%) e soprattutto rispetto al 2008 (37 mila lavoratori part time in più, pari a +35,7%). I lavoratori con un rapporto di lavoro a tempo parziale rappresentano il 34,0% dei lavoratori complessivi (32,7% nel 2016 e 24,0% nel 2008).
I lavoratori con contratto di lavoro a termine sono complessivamente 105 mila, pari al 25,1% dei lavoratori complessivi (19,2% nel 2008, percentuale in linea con i valori del 2008). Rispetto al 2016 anche i lavoratori precari sono notevolmente cresciuti: oltre 29 mila unità in più, pari a +38,4%. I lavoratori a tempo indeterminato sono complessivamente 301 mila e continuano inesorabilmente a diminuire: sono 8 mila in meno rispetto al 2016 (-2,5%) e addirittura 44 mila in meno rispetto al 2008 (-12,8%).
Coloro che hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato sono 213 mila, pari al 51,0%, ovvero solo la metà del complesso dei lavoratori dipendenti (erano il 55,3% nel 2016 e il 62,6% nel 2008) e sono 60 mila in meno rispetto a quanti erano nel 2008, prima della crisi (-21,9%).
Secondo Daniela Barbaresi, segretaria generale della Cgil Marche, e Giuseppe Santarelli, segretario regionale, responsabile del mercato del lavoro, “ciò significa che la ripresa occupazionale è rappresentata da rapporti di lavoro precari e a tempo parziale che hanno progressivamente eroso i rapporti di lavoro stabili e a tempo pieno”.
Il lavoro precario e parziale interessa soprattutto le lavoratrici dipendenti che rappresentano il 44,4% del totale, ma tale percentuale sale al 67,5% di coloro che hanno un rapporto di lavoro part time e al 47,7% di coloro che hanno un contratto a termine, mentre scende al 30,7% di coloro che hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato.
Significativa è anche la composizione della forza lavoro per genere e settori. Nell’ambito delle attività manifatturiere, i settori nei quali la presenza femminile è prevalente sono quello dell’abbigliamento-calzature (58,4% del totale) e l’industria agroalimentare (52,2%). Per quanto riguarda i servizi, le donne rappresentano la maggior parte dei lavoratori dipendenti nel commercio (52,7%), nel settore alberghiero e ristorazione (60,8%), nelle attività informatiche, ricerca, studi professionali (51,3%), attività sanitarie e sociali (79,3%), istruzione-formazione (76,5%), nei servizi a persone e famiglie (69,4%), nelle attività finanziarie e assicurative (51,4%), nei servizi postali (60,9%) e nelle attività artistiche-culturali-associative (54,9%).
I settori con una elevata incidenza di lavoro femminile sono anche quelli con una più alta incidenza di lavoro a tempo parziale. Si tratta in particolare dell’industria agroalimentare, dove i contratti di lavoro part time interessano la metà degli occupati (49,3%), del commercio (44,2%), nel settore alberghi-ristorazione (61,9%), nell’assistenza sanitaria e sociale (64,1%), nei servizi a persone e famiglie (68,7%), nelle attività informatiche e servizi alle imprese (47,7%) e nelle attività artistiche-culturali-associative (59,4%).
Le retribuzioni dei lavoratori dipendenti
Le retribuzioni medie lorde annue percepite nelle Marche sono pari a 18.996 euro e, rispetto al 2016, registrano una diminuzione del 2,2%, pari a -426 euro; un calo inferiore a quello medio nazionale, ma notevolmente distante dall’incremento del +1,6% registrato nelle regioni del Centro. Peraltro, le retribuzioni medie nelle Marche sono significativamente inferiori sia al valore medio nazionale (-1.901 euro) sia soprattutto a quello delle regioni del Centro (-2.539 euro). Dunque è come se i lavoratori delle Marche percepissero più di una mensilità e mezzo di retribuzione in meno della media delle regioni del Centro.
Peraltro, nel 2017, tali differenze si sono ulteriormente accentuate rispetto all’anno precedente. Va precisato che i valori retributivi sono nominali e non tengono conto dell’inflazione. Se le retribuzioni medie lorde annue sono pari a 18.996 euro, i lavoratori con un lavoro a tempo parziale percepiscono mediamente retribuzioni di 10.453 euro lordi annui, mentre quelli che hanno un contratto di lavoro a tempo determinato percepiscono mediamente 9.116 euro lordi annui. I lavoratori con contratto a tempo pieno e determinato ricevono una retribuzione lorda annua di 27.118 euro.
Significative le differenze retributive di genere: le retribuzioni medie lorde annue dei lavoratori ammontano a 22.156 euro, a fronte dei 15.045 euro delle lavoratrici. Quest’ultime, dunque, percepiscono 7.111 euro meno dei loro colleghi maschi, pari a -32,1%. Naturalmente, queste differenze sono condizionate anche dal maggior utilizzo per le lavoratrici del part time piuttosto che dei contratti a termine. Tuttavia, l’incidenza di contratti precari o a tempo parziale giustifica solo in parte il divario retributivo tra uomini e donne, basti osservare il fatto che le lavoratrici con contratto a tempo pieno e indeterminato percepiscono 4.890 euro lordi annui in meno dei loro colleghi maschi, pari a -17,1%.
Osservando le qualifiche professionali, emergono notevoli differenze: le retribuzioni degli operai sono di 15.620 euro lordi annui e quelle degli impiegati sono di 23.490 euro; le retribuzioni dei quadri arrivano a 59.965 euro lordi, mentre quelle dei dirigenti sono mediamente di 127.699 euro. Gli apprendisti percepiscono mediamente 11.561 euro annui.
I giovani lavoratori con meno di 29 anni presentano una retribuzione lorda annua di 10.859: si tratta di un importo notevolmente inferiore a quello mediamente percepito dai lavoratori dipendenti privati nelle Marche. I giovani con un lavoro a tempo parziale percepiscono mediamente retribuzioni di 7.153 euro lordi annui, mentre quelli che hanno un contratto di lavoro a tempo determinato percepiscono mediamente 7.021 euro lordi annui. Dunque, i giovani, più esposti a lavori precari e discontinui o a part time involontari, si misurano con retribuzioni medie complessivamente basse e bassissime.
Suddividendo i lavoratori dipendenti per classi di retribuzione lorda annua, emerge che un numero significativo di lavoratori percepisce retribuzioni inferiori a 15.000 euro: si tratta di 172.210 lavoratori e lavoratrici (pari al 41,3% del totale), di cui 119.932 percepisce addirittura meno di 10.000 (28,7%): dunque un lavoratore su quattro percepisce retribuzioni lorde annue basse e bassissime al di sotto della soglia di povertà.
Significative le differenze di genere: le lavoratrici con meno di 15.000 euro sono oltre la metà del totale (53,6%), mentre gli uomini sono meno di uno su tre (31,4%). Ancora più evidente la differenza di genere tra coloro che percepiscono retribuzioni più basse. In particolare, le donne che percepiscono meno di 10.000 euro di retribuzione lorda annua rappresentano il 36,4% del totale, mentre i lavoratori sono il 22,6%.
Questi dati mettono in evidenza come i livelli salariali siano complessivamente troppo bassi e troppo diseguali. A tutto ciò si sommano le diseguaglianze territoriali, particolarmente rilevanti e crescenti. Ma questi dati portano soprattutto ad affermare che c’è una vera e propria questione salariale da affrontare urgentemente.
Livelli retributivi troppo bassi rendono necessario un ripensamento delle politiche del lavoro, delle politiche fiscali e di sostegno al reddito e soprattutto delle politiche contrattuali da rendere più robuste e rivendicative.
Salari poveri sono anche l’indice di un sistema produttivo povero e fragile. Sul fronte contrattuale, la via principale è rappresentata dai Ccnl e, più che del salario minimo, c’è bisogno di garantire che i Ccnl firmati da organizzazioni sindacali e datoriali effettivamente rappresentative siano pienamente esigibili ed efficaci per tutti, erga omnes, dando così piena attuazione all’art. 39 della Costituzione attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale e mettendo fine alla pratica dei contratti pirata che nascono solo allo scopo di abbassare i diritti dei lavoratori e praticare dumping contrattuale.
Secondo Daniela Barbaresi e Giuseppe Santarelli: “La sfida che lanciamo alle imprese è questa: estendere e qualificare la contrattazione a ogni livello con accordi che devono essere realmente l’occasione per sostenere la crescita dei salari e la crescita della produttività. Devono promuovere la qualità di ciò che si produce e del lavoro che si svolge. Ciò significa concordare l’organizzazione del lavoro, gli obiettivi produttivi investendo nella professionalità e nella competenza dei lavoratori, stabilizzando e non precarizzando i posti di lavoro”.
Ma la produttività dipende anche da fattori esterni: infrastrutture, logistica, nuove tecnologie, formazione, energia, territorio. Fattori che hanno bisogno di un soggetto pubblico che non sia spettatore passivo, ma un protagonista, promotore e sostenitore di una nuova politica salariale e dei redditi.
Tutti questi obiettivi richiedono anche una politica fiscale adeguata che sostenga il valore reale dei salari e che riduca il peso fiscale sulle retribuzioni, rilanciando consumi, investimenti e crescita.
Servono quindi scelte nettamente diverse da quelle portate avanti finora, fatte di sgravi fiscali (e contributivi) a favore di welfare aziendale e benefit, a volte neanche contrattati, a vantaggio dei pochi che possono contare sulla contrattazione decentrata.
Ma anziché discutere di flat tax, che riducendo in modo significativo il peso fiscale sui redditi più alti senza toccare se non in modo marginale o nullo le retribuzioni più basse, occorrerebbe prevedere un intervento di riduzione fiscale significativa sui salari a partire da quelli più bassi, così come prevedere la fiscalizzazione degli aumenti derivanti dai rinnovi dei Ccnl: dunque, non solo intervenire sul cuneo fiscale, ma anche sui salari da contratto nazionale, a vantaggio dell’intera platea di lavoratori dipendenti.
Peraltro un intervento fiscale sui redditi più bassi, e più inclini ai consumi, sarebbe anche un importante fattore di stimolo alla crescita.