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“L’allenatore di calcio è il mestiere più bello del mondo. Lo penso non tanto e non solo perché da allenatore ho avuto a che fare con il calcio, ma soprattutto perché ho avuto a che fare con gli uomini”. Dritto al punto, Renzo Ulivieri. Pulito, chiaro come i suoi pensieri. Per tutta la chiacchierata batte su un tasto, quello della solidarietà. E gli scappa una mezza citazione quando si guarda intorno, torna all’oggi, sporco di guerre e pandemie: “la nostra società sta prendendo una china sbagliata, nelle difficoltà a molti sembra il momento del si salvi chi può. E invece ci si salva tutti insieme, combattendo le battaglie tutti insieme”.
Eccolo il sindacalista dell’Associazione italiana allenatori. Il consigliere comunale del Pci negli anni ’60, poco più che ventenne, a San Miniato, la città che gli ha dato i natali e di cui poi è stato anche assessore. Ecco il toscano chiaro e diretto, senza peli sulla lingua, senza troppe reticenze in un mondo spesso impenetrabile, sempre pronto a fare quadrato, a sublimare e moltiplicare la regola che ciò che succede nello spogliatoio resta nello spogliatoio.
(Renzo Ulivieri, dopo una breve carriera da calciatore, è stato allenatore dal 1965 fino al 30 giugno scorso. Tra le tante panchine di serie A, ricordiamo quella del Bologna. Dal 2006 è presidente dell'Associazione italiana allenatori calcio, il sindacato della categoria)
“Lo sport, il calcio, in sé non sono portatori di valori. L’unico valore è quello di superare l’avversario, passare avanti agli altri. Di valori ce ne sono se ci si impegna a metterceli, tutti insieme, calciatori, allenatori, dirigenti, lavoratori, sindacati. Allora sì che può diventare uno straordinario veicolo di educazione e di solidarietà. Valori che sarebbero fondamentali al giorno d’oggi”.
Un’epoca triste, buia. “Sembra ci sia sconforto anche nel calcio, le persone si allontanano, sta ai dirigenti riportare sul campo la solidarietà, la sensibilità, riaffermare l’interesse comune per migliorare le cose. Il mondo professionistico ha tre obiettivi, immutabili: fare risultato, fare spettacolo, fare risorse. Coltivando questi tre obiettivi primari, tuttavia, si può anche utilizzare il movimento per migliorare il mondo, utilizzando l’attenzione che la società e miliardi di tifosi di tutto il pianeta riversano sul calcio”.
È grazie a questa visione che parlando del protocollo firmato lo scorso mese anche dalla Fillea Cgil per garantire salute e sicurezza ai lavoratori impiegati nella costruzione o nell’ammodernamento degli stadi, riesce a darci l’esatta misura, il significato di quel documento sul quale ha apposto anche la sua firma: “non è solo un protocollo in senso stretto, un documento che racchiude misure concrete a protezione dei lavoratori, è un messaggio. Per un sindacato, perché l’associazione italiana allenatori è un sindacato, è naturale muoversi di concerto a chi cerca la tutela dei lavoratori in ogni angolo del mondo”. Un messaggio che produca una eco ovunque. Dopo anni di denunce e una battaglia che il sindacato internazionale ha combattuto per difendere gli operai sfruttati in Qatar, nella gigantesca macchina organizzativa della logistica dei mondiali del prossimo dicembre, è un messaggio forte, che amplifica proprio quella richiesta di solidarietà di cui parla mister Ulivieri.
E allora la piega del discorso ci porta per forza al tema del lavoro nel mondo del calcio. Dove l’elenco delle professionalità è lungo e quello che finisce sotto i riflettori, i calciatori, gli allenatori, i presidenti, i procuratori, è solo la punta di un gigantesco e popolatissimo iceberg. “Una partita di calcio non è fatta solo di 22 giocatori. Dietro alle quinte ci sono centinaia di figure diverse che ne permettono lo svolgimento. Dai magazzinieri a chi cura l’erba, da chi fa funzionare ogni aspetto degli stadi all’autista del pullman. C’è un’organizzazione infinita, è un’industria di alto livello se guardiamo al numero degli addetti. Oggi il valore e l’importanza di questi lavoratori nell’ombra mi sembra riconosciuto più di un tempo. E parlo del rapporto tra le persone, tra calciatori, allenatori e il mondo che gravita intorno. Credo che la sensibilità sia migliorata, ci sia più educazione, arrivare al campo e andare a salutare i lavoratori sta diventando normale per i calciatori”.
E il rispetto, la cognizione verso le difficoltà delle altre serie e degli altri sport? La redistribuzione tra chi continua a essere ricco, il calcio, e le altre discipline che spesso arrancano? Sta succedendo? “Sì e no. Detto che la redistribuzione delle risorse è compito dello Stato e delle leggi, io credo che si stia affermando, nelle coscienze, una sorta di redistribuzione sociale del diritto allo sport. Non più un diritto pensato solo per i giovani, ma un diritto anche per me, per gli anziani. Un diritto poiché sport vuol dire diritto alla salute fisica e mentale, ma anche salute sociale e persino salute politica. Perché lo sport ci può aiutare a riconquistare e riaffermare il nostro status di cittadini. Qualche anno fa avevo fatto un’esperienza di calcio camminato coinvolgendo signore anziane che, grazie a questo progetto, erano passate dalla tombola alla palestra e all’organizzazione delle trasferte. Una lezione di invecchiamento attivo”.
Damiano Tommasi sindaco di Verona che effetto può avere? “Io da ragazzo, nel ‘64, fui consigliere e assessore comunale: è stata un’esperienza importantissima, ho lavorato accanto a compagni esperti che mi hanno insegnato a stare al mondo. Tommasi ha questo tipo di predisposizione e noi siamo contenti che il mondo del calcio abbia un rappresentante del genere che partecipi all’amministrazione della cosa pubblica”.
Mister, ti manca il tuo lavoro? “Fino al 30 giugno allenavo il Pontedera femminile. Era una squadra che ricalcava abbastanza la democrazia corinthiana, quella del dottor Socrates per capirci. Con un pizzico di povertà e francescanesimo. Ora ci sono prospettive diverse e staranno anche meglio, si costruisce un altro mondo”. Il calcio femminile è il futuro? “Il calcio femminile per sfondare deve superare un limite: raggiungere tutto il territorio nazionale, avviando un cambiamento culturale. Parlo di numeri: in alcune regioni il seguito è ancora troppo basso. Ma ci si arriverà, in modo graduale. E il professionismo appena conquistato per le giocatrici di serie A darà una mano”.