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Dopo l’improvvida scelta del governo di sbloccare dal 1° luglio scorso i licenziamenti economici nell’industria e delle costruzioni (prima non permessi a causa dell’emergenza Covid-19), si sono rapidamente succeduti diversi annunci aziendali di licenziamenti collettivi con cessazione di attività. Alcuni di questi casi – in particolare quelli della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza, della Gkn di Firenze e della Timken di Brescia – hanno colpito particolarmente l’opinione pubblica, soprattutto per le modalità di comunicazione delle scelte aziendali che le imprese interessate hanno deciso di adottare.
Si è trattato – e si tratta, visto che le vicende che riguardano queste aziende sono ancora del tutto aperte – di licenziamenti collettivi e di chiusure di stabilimenti, quindi di decisioni traumatiche con impatti psicologicamente devastanti per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti, e con effetti sociali assai complicati da gestire per le realtà territoriali coinvolte.
Il fatto che decisioni di tale delicatezza e portata siano state annunciate con messaggi whatsapp e di posta elettronica direttamente alle persone destinate al licenziamento, prima e al di là delle comunicazioni formali previste dalle leggi vigenti, ha suscitato indignazione e sgomento, per almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, il cinismo e la spregiudicatezza che le aziende hanno mostrato con la scelta della messaggistica individuale e della freddezza nel trattare situazioni così gravide di conseguenze sul piano umano.
In secondo luogo, la disinvoltura e la doppiezza con cui queste aziende – filiali italiane di grandi imprese multinazionali – hanno operato verso i lavoratori e le istituzioni, avendo fino a poche settimane prima dell’annuncio di chiusura rassicurato i dipendenti con ottimistiche comunicazioni sulla situazione degli stabilimenti e, in qualche caso, avendo siglato, anche in importanti sedi istituzionali, accordi che prevedevano programmi di investimenti con garanzie sull’occupazione.
Infine, l’ostentato dispregio che queste aziende hanno mostrato a proposito dell’impegno a utilizzare gli ammortizzatori sociali disponibili prima di licenziare; impegno che, con l’approvazione del governo, era stato assunto a fine giugno in un documento firmato dai sindacati e da Confindustria. Quella stessa Confindustria che, peraltro, sui comportamenti delle aziende in questione, tutte sue associate, si è limitata a poche parole di circostanza.
Né le mobilitazioni di lavoratori e sindacati né le richieste del governo e delle istituzioni regionali e locali hanno prodotto sostanziali modifiche delle scelte annunciate dalle imprese. Gli appelli al senso di responsabilità, ai doveri dell’impresa, all’uso di strumenti alternativi ai licenziamenti, sono rimasti pressoché senza risposte concrete. In ragione del quadro che si è determinato, ha ripreso vigore nel Paese la discussione sulla necessità di provvedimenti legislativi in grado di definire un quadro di regole più severe e di comportamenti più socialmente consapevoli per le aziende che nel futuro intendano procedere a chiusure di stabilimenti e cessazioni di attività.
È su questo che stanno lavorando i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, in particolare il ministro Andrea Orlando e la vice ministra Alessandra Todde. Dunque, non un decreto “contro le delocalizzazioni”, come erroneamente è stata presentata l’iniziativa governativa, ma il tentativo di costruire un percorso più vincolante, soprattutto dal punto di vista delle relazioni industriali e della responsabilità sociale dell’impresa, rispetto alle previsioni di legge oggi esistenti in Italia in caso di crisi o ristrutturazioni aziendali e di licenziamenti collettivi per cessazione di attività.
Non si tratta di propositi bolscevichi o statalisti né di pregiudizi contro le imprese, come parte degli organi di informazione e diverse organizzazioni imprenditoriali hanno prontamente lamentato. Si tratta, al contrario, di prevedere strumenti che già si adoperano in molti Paesi economicamente avanzati e la cui esistenza non determina conseguenze negative né sulla produttività e sulla competitività dell’economia né sulla coesione sociale, come dimostrano ad esempio le pratiche vigenti in Francia e in Germania.
In Francia, con un apposito provvedimento legislativo, è stato da tempo istituito lo strumento Gestion prévisionnelle des emplois et des compétences (Gpec, Gestione anticipata del lavoro e delle competenze), che serve ad agire preventivamente sui motivi e sulle conseguenze di situazioni di crisi strutturali o di difficoltà produttive nelle imprese, prendendo in considerazione sia gli aspetti relativi allo stato dell’azienda (situazione economica, finanze e stato patrimoniale, capacità competitiva) sia gli aspetti che riguardano l’occupazione e, più in generale, le questioni sociali.
La Gpec prevede procedure di dialogo sociale, di informazione e consultazione dei lavoratori, che diventano fondamentali per instaurare un clima di fiducia e di ricerca di soluzioni tra le parti interessate alla gestione della crisi d’impresa. In questo quadro, vi è l’obbligo per l’impresa sia di negoziare con i rappresentanti sindacali sia di adottare un piano di gestione degli aspetti relativi alle conseguenze occupazionali, ai fabbisogni formativi come strumento per mitigare l’impatto sui posti di lavoro, agli ammortizzatori sociali da utilizzare e ai servizi di politiche attive del lavoro da attivare in collaborazione con le istituzioni preposte, a partire dal Pôle emploi (Polo per l’impiego), agenzia nazionale francese incaricata delle politiche del lavoro.
In caso di licenziamenti economici collettivi le aziende con più di 50 dipendenti devono presentare il Plan de sauvegard de l’emploi (Pse, Piano di salvaguardia dell’occupazione). Tra le misure obbligatorie del Piano, in merito alle quali la rappresentanza sindacale e i delegati del personale devono essere informati e consultati, vi sono:
- ricollocazione interna in altri stabilimenti dell’azienda (nel caso di gruppi nazionali con più siti produttivi) dei dipendenti sulla base delle loro mansioni nella stessa categoria o in una equivalente;
- creazione di nuove attività da parte dell’azienda;
- azioni per la ricollocazione esterna all’azienda;
- azioni di sostegno all’attività imprenditoriale dei lavoratori;
- interventi possibili su riduzione e flessibilità dell’orario di lavoro;
- riduzione del lavoro straordinario;
- piano di riqualificazione per i lavoratori più anziani o con profili professionali di difficile ricollocazione.
Tutte le misure del piano possono essere realizzate dall’azienda negoziando un accordo collettivo. In questo caso, l’accordo deve essere maggioritario, cioè firmato da organizzazioni sindacali che in azienda rappresentano più del 50% o dalla maggioranza dei delegati eletti. Per diventare effettivo, l’accordo deve essere sottoposto al vaglio della Direzione regionale delle imprese, del lavoro e dell’impiego (Direccte), che si pronuncia sulla validità dell’accordo entro 15 giorni.
In assenza di accordo sindacale, l’azienda ha comunque l’obbligo di redigere il Pse e di prevedere in ogni caso misure di contenimento degli impatti negativi delle proprie decisioni. Anche in questo caso il piano va sottoposto alla Direccte, che ha 21 giorni di tempo per valutare la coerenza delle misure previste dall’azienda con la sua effettiva situazione produttiva e finanziaria, con i mezzi di cui dispone, con la credibilità dei dati sui licenziamenti previsti e sui piani di riqualificazione per i dipendenti, con il quadro legislativo esistente, con gli accordi di vario tipo precedentemente stipulati dall’azienda. La Direccte ha anche il compito di verificare se le procedure di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori siano state effettuate regolarmente.
In Germania, le norme legislative sulla Mitbestimmung, ossia la codeterminazione, assegnano diversi diritti di informazione, consultazione e partecipazione ai rappresentanti dei lavoratori nei Comitati di sorveglianza delle imprese e ai rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di fabbrica (il Betriebsrat), che è il vero organo di rappresentanza in quanto eletto dall’insieme dei lavoratori. I Comitati di sorveglianza sono istituiti nelle imprese con più di 500 dipendenti e i lavoratori eleggono direttamente i loro rappresentanti in tali organismi. I Consigli di fabbrica possono essere costituiti nelle imprese con almeno cinque dipendenti e i rappresentanti sindacali vengono eletti ogni quattro anni con elezioni a scrutinio segreto.
In estrema sintesi, sia i rappresentanti nel Consiglio di fabbrica sia i rappresentanti nel Comitato di sorveglianza hanno il diritto a essere informati e consultati su tutti gli aspetti della vita dell’impresa. Le tre aree principali in cui questo diritto si applica sono:
- le questioni riguardanti la situazione economica e finanziaria dell’impresa, i piani di investimento, i metodi di lavoro, i cambiamenti tecnici, gli interventi sugli edifici aziendali, le procedure riguardanti l’occupazione;
- le questioni riguardanti i singoli lavoratori (provvedimenti disciplinari, comportamenti individuali, licenziamenti individuali, percorsi di carriera ecc.);
- le questioni sociali riguardanti l’intera forza lavoro.
L’ampiezza delle materie rende partecipi i rappresentanti dei lavoratori in Germania di gran parte delle scelte e delle decisioni aziendali. Per limitarci alle questioni occupazionali, il Betriebsrat (ossia il Consiglio di fabbrica aziendale) ha il potere di opporsi a un licenziamento individuale considerato immotivato o le cui ragioni non siano condivise. In caso di crisi, di ristrutturazioni o di decisioni aziendali che potrebbero avere impatti negativi sui lavoratori, le rappresentanze sindacali – una volta svolto il processo di informazione e consultazione previsto – hanno il diritto di richiedere un accordo di “riconciliazione di interessi” con l’azienda, volto a far sì che i cambiamenti previsti siano adottati con il minor svantaggio possibile per i lavoratori. Hanno inoltre il diritto di richiedere l’adozione di un Sozialplan (Piano sociale), sostanzialmente con gli stessi impegni richiesti alle aziende dalla procedura adottata in Francia.
Come si vede, in discussione non vi è la libertà d’impresa o la possibilità di decidere dove produrre. In discussione è il fatto che accordi di gestione di crisi aziendali e di licenziamenti (di cui pure c’è grande pratica e diffusione nel nostro Paese) non siano affidati solo alla disponibilità dell’azienda a negoziare o all’esercizio dei rapporti di forza tra le parti. Il punto riguarda la funzione di responsabilità sociale che l’impresa ha il dovere di avvertire come valore in sé, nei confronti dei propri dipendenti, delle istituzioni e della società nelle realtà territoriali in cui opera, dell’insieme dei portatori di interessi. Quella responsabilità che fa sì che l’idea di licenziare via whatsapp sia bandita, sia considerata tabù e risulti impossibile da praticare per cultura, per prassi, per legge. Per la civiltà del lavoro, in fin dei conti.
Fausto Durante è coordinatore della Consulta Industriale della Cgil