PHOTO
Fanno fatica a uscire dalla penombra nella quale sono relegate persino adesso che continuano a lavorare, avamposti a guardia di frontiere, nazionali e domestiche, varchi sensibili, luoghi da tutelare. Le guardie giurate sono disseminate dappertutto: sono ai transiti di porti e aeroporti, a disciplinare gli ingressi nei supermercati, a sorvegliare le attività chiuse per decreto, alle porte degli ospedali e all’accesso delle tende pre-triage allestite per affrontare l’emergenza.
Fabrizio lavora nella ex palazzina malattie infettive di un ospedale, a Prato, che dal 20 marzo è stata convertita in una struttura dedicata Covid-19 che accoglie i pazienti positivi dimessi dai nosocomi. Altri percorsi, ingressi separati per il personale: un lavoro diverso, con nuovi rischi. “Da quando è cominciata l’emergenza stiamo lavorando senza alcun tipo di dotazione protettiva, non è arrivato niente né dalla nostra azienda né dalla Asl, solo delle mascherine di carta con gli elastici, destinate a un centro commerciale che poi ha chiuso”. Una scarsa protezione, senza certificazione. “I colleghi collocati all’interno dell’ospedale sono riusciti a trovare qualcosa nei reparti, ma non hanno ricevuto materiale conforme in dotazione nemmeno loro - racconta Fabrizio, che ha scritto due volte all’azienda negli ultimi dieci giorni chiedendo una fornitura di Dpi (i dispositivi di protezione individuale), in copia l’Ispettorato del Lavoro e il Dipartimento salute e sicurezza – non c’è assunzione di responsabilità da parte di nessuno, il lavoro va avanti grazie alle capacità acquisite in anni di esperienza, ma in situazioni di forte stress può complicarsi tutto”. C’è chi si è messo in malattia per tenere la famiglia al riparo dal pericolo del contagio, ma i più resistono al loro posto. “È sconfortante lavorare in queste condizioni e constatare, ancora una volta, come la nostra categoria sia abbandonata dalle istituzioni. Sto lavorando con un paio di mascherine che mi sono procurato da solo. E quando non saranno più utilizzabili? Secondo il protocollo dovrei fermarmi”.
“Il pubblico servizio non può essere interrotto, ma veniamo mandati allo sbaraglio - dice Giovanni, in servizio a Roma – c’è poco rispetto per il nostro lavoro”. E non tutti vengono considerati lavoratori a rischio, “le guardie giurate impiegate nel trasporto valori, ad esempio, hanno fatto fatica ad ottenere i Dpi, pur lavorando in un piccolo abitacolo. Quando ho dovuto svolgere questo servizio ho utilizzato una mascherina che mi sono procurato da solo e l’ho sanificata per riutilizzarla più volte”.
“Siamo un esercito che nessuno vuole regolamentare – spiega Emanuele, un’altra guardia giurata della capitale – una sorta di polizia parallela composta da circa 70 mila addetti che svolgono funzioni tipiche dei pubblici ufficiali, ma senza adeguati riconoscimenti dal punto di vista giuridico ed economico”. E adesso senza protezioni, nonostante la richiesta di intervento allo Spresal, il Servizio prevenzione sicurezza ambienti di lavoro: in risposta, l’istituto per il quale Emanuele lavora ha comunicato che il camion che trasportava i dispositivi ordinati era stato fermato alla dogana. Più tempestiva la richiesta di cassa integrazione avanzata per i 242 dipendenti, per buona parte senza stipendio da agosto, come Emanuele, e con l’obbligo di rispettare i rinnovi dei permessi – del decreto di nomina a Guardia Particolare Giurata e del porto d’armi, in scadenza ogni due anni - che comportano spese al momento non rimborsate, perché la busta paga non c’è. Il contratto del settore è scaduto nel 2015. “E la legge che ci regolamenta è datata 1931, pensiamo a quante cose sono profondamente cambiate da allora”.
Giuseppe è alla security del porto di Genova dove, oltre ai passeggeri in transito, c’è la nave ospedale. “Svolgere il nostro lavoro di controllo mantenendo la distanza raccomandata e senza le dotazioni di protezione necessarie ha ripercussioni sulla nostra sicurezza e sulla sicurezza marittima”. Sono arrivati i passeggeri dalla Spagna, è attesa una nave crociera con casi sospetti a bordo e poi ci sono i tanti passeggeri che arrivano dal nord e tentano di raggiungere le isole maggiori. “Abbiamo dovuto stazionare al terminal con passeggeri provenienti da Bergamo, autorizzati a passare la notte lì. Vengono a chiedere informazioni, è una situazione difficile da gestire: ci hanno dato i guanti e una boccetta di disinfettante da centellinare tra noi, le mascherine sono pezzi di carta con gli elastici, con uno starnuto si è rotta”. Difficoltà di applicazione dei protocolli anche nei siti di accesso al cantiere del ponte Morandi, dove non ci sono interventi di pulizia e le guardiole sono spazi angusti a rischio.
“Ringraziano tutti tranne noi” dice Fabrizio, in servizio al pronto intervento radiomobile su auto nel capoluogo ligure. “I dpi sono pochi e non adeguati e le auto non vengono sanificate, ci dobbiamo pensare noi”. Per loro sono aumentati gli interventi di allarme, con tutte le aziende che sono state chiuse. Ma una paura supera tutte le altre, quella di portare il virus a casa, in famiglia.
“Non bacio i miei figli da un mese” racconta Giuseppe, di Palermo. Lo ascoltiamo insieme al collega - si chiama Giuseppe anche lui - e si alternano al viva voce del telefono, ma la loro sembra una voce sola. “Io ho tre bambini, lui due, non vogliamo portare questo problema a casa”. “Siamo in tutti i settori sensibili, davanti alle porte, davanti a tutti, e ci confrontiamo con un’utenza arrabbiata e spaventata – ci dicono – non abbiamo paura di aiutarli, ma chiediamo più sicurezza. I dpi scarseggiano, l’azienda ci ha detto ‘se li trovate ve li paghiamo noi’. Ma le mascherine più sicure sono introvabili. Dovrebbero fare i tamponi anche a noi”.La conclusione è sempre la stessa, da una regione all’altra, da una ditta all’altra, alla fine di una ronda di controllo o di un turno all’ospedale o al porto: “Nessuno ci prende in considerazione, siamo ai confini di ogni cosa ma restiamo invisibili. Rischiamo come altre categorie, ma non abbiamo lo stesso trattamento. Ogni 4 o 5 anni ci troviamo a chiederci se l’azienda che subentrerà con il cambio di appalto metterà in discussione il contratto nazionale”.
Mario lavora a Cosenza, nella sede regionale Rai. “Le disposizioni sono in continuo cambiamento. L’ultima novità è il rilevamento della temperatura corporea all’ingresso, con il termometro a distanza”. Una novità che lascia un po’ interdetti anche i lavoratori sottoposti al controllo, abituati a timbrare il cartellino ed entrare. Qualcuno avanza delle obiezioni sull’ideoneità delle guardie giurate a una mansione sanitaria e sul rispetto della privacy, e alla fine, tra i due fuochi – l’adempimento di una direttiva da una parte e il malcontento dell’utenza dall’altra – ci sono sempre loro, pubblico servizio ma non pubblici ufficiali, in equilibrio precario sul filo sottile che corre tra quello che possono e non possono fare, teso adesso su uno scenario più complesso e meno regolato.
Sono diversi i siti in cui il controllo della temperatura è affidato alle guardie giurate, dagli aeroporti ai centri commerciali, alle tende di prefiltraggio negli ospedali, dove a volte è chiesto loro anche di fare domande sullo stato di salute dei cittadini che si presentano. I confini tra i ruoli si fanno labili anche alla Rems – Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza - dove lavora Giuseppe, a Trani, un vecchio ospedale del quale restano degli ambulatori e il reparto per detenuti con problemi psichiatrici. “Ci sarebbero dovute essere delle guardie carcerarie dove lavoro. Non abbiamo una qualifica vera e propria, ma quando c’è un problema diventiamo per tutti gli sceriffi con la pistola”. Niente di tutto questo nei giorni del virus, il problema adesso è la scarsa protezione. “Dpi non ne abbiamo, ci hanno dato una sola mascherina chirurgica all’inizio dell’emergenza, io ne uso una che mi ha confezionato mia suocera. E poi c’è il collega all’ingresso, chiuso in un gabbiotto di un metro, costretto a usare lo stesso bagno destinato al pubblico”.
Le guardie giurate ci sono, sono tante e sono senza dubbio essenziali, duttili e flessibili. Anche nei giorni convulsi e spiazzanti dell’emergenza Coronavirus il profilo identitario della professione, sempre più incerto, cerca il proprio riconoscimento: che significa adesso, in primo luogo, tutela della sicurezza dei lavoratori.