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Nicola
Sono un medico in formazione in medicina generale, ho fatto parte dei medici che nei mesi passati si sono mobilitati per chiedere una riforma radicale di tutta la filiera formativa, che va dall’ingresso al corso di laurea in medicina fino al conseguimento di un titolo di specializzazione. È necessaria una riforma radicale che parta da una messa in discussione del numero chiuso, che preveda un’eliminazione dell’imbuto formativo - quindi della differenza tra numero di candidati e numero di borse di specializzazione messe a concorso - e che porti un potenziamento straordinario di tutto il servizio sanitario nazionale, per garantire il diritto alla salute alla popolazione. È impensabile continuare a difendere un servizio sanitario totalmente depotenziato, quando invece servirebbe ricostruirlo da zero e potenziarlo in maniera esponenziale. Sono stato precario per un annetto, vivendo con l’angoscia di non poter entrare in un corso di formazione. Poi sono stato tra i fortunati che hanno staccato il biglietto giusto della lotteria: perché è irrealistico parlare di merito, si tratta di un testa e croce che non misura nulla e serve solo a escludere una quota di persone. Sono tra quelli che ce l’hanno fatta, comunque vivo con 800 euro al mese. Posso immaginare, perché la conosco, la vita delle mie colleghe e dei miei colleghi, che per anni tentano questo concorso, ogni volta con gli studi meno freschi, ogni volta più stanchi e disillusi, e si trovano a dover andare avanti con contratti precari, a partita Iva, sapendo che per due mesi lavorano e poi chissà, a contrattare con i colleghi per le sostituzioni. Non è dignitoso, si tratta di persone che lavorano per la salute collettiva.
Tamara
Sono un’operatrice socio assistenziale. Ho iniziato come operatrice del terzo settore poi mi sono spostata nella sanità, prima privata e convenzionata, poi con le cooperative sociali. Quello che proprio non riesco a mandar giù è perché un operatore delle cooperative sociali si debba sentire un lavoratore di serie B: perché, nonostante si svolgano le stesse mansioni con le stesse competenze, non è equiparato su nulla. Non sono equiparati i diritti, non lo sono i doveri e tantomeno il salario. Non è l’unica disuguaglianza: la sanità dovrebbe essere completamente pubblica e accessibile, per tutti, perché nessuno dovrebbe essere lasciato solo e avere il problema di potersi curare o no, in base alla sua condizione economica.
Nicoletta
Lavoro in Arpa Umbria dal 2002, dopo un’esperienza nel servizio di medicina, igiene e sicurezza sul lavoro. Lavoro da 1993 e mi sono sempre occupata dei temi della prevenzione. Sono nata e vivo in una città nata intorno a una fabbrica, dove il movimento operaio ha stimolato la cultura della prevenzione, rifiutando quella della modernizzazione e del rischio: quindi non potevo che innamorarmi di questo tema, che purtroppo è da sempre la cenerentola del sistema sanitario nazionale. Ancor di più la prevenzione primaria, perché non si vede, non si paga, è quella che punta all’eliminazione dei fattori di rischio: dal controllo dell’aria, dell’acqua, degli ambienti di lavoro e degli alimenti. Occorre rimettere insieme quello che è stato separato con il referendum del ’93, ambiente e salute, perché sono strettamente correlati. La regionalizzazione del sistema sanitario nazionale ha fatto il resto: abbiamo regioni in cui non sono garantiti i diritti alla salute e a un ambiente salubre. La pandemia poi ha fatto emergere ulteriormente le forti diseguaglianze che c’erano già, perché non ha permesso a tutti i cittadini di essere curati nella stessa maniera.
Erica
Sono infermiera e lavoro nel reparto di emergenza psichiatrica del Policlinico Umberto I a Roma. Nel corso della mia esperienza lavorativa ho vissuto sulla mia pelle cosa vuol dire sistema sanitario nazionale, cosa vuol dire garantire le cure in maniera uguale, universale, solidale e soprattutto laica, a tutti i cittadini. Il nostro ruolo di operatori sanitari è molto importante: ci permette di raggiungere le persone, di avvicinare l’area sanitaria ai luoghi dove vivono, nel loro ambiente, fornendo un’assistenza adeguata. Assistenza che non vada solo a tappare i buchi quando ormai i danni sono stati fatti, ma che riesca a realizzare il sogno di una prevenzione primaria, necessaria a garantire lo stato di salute della popolazione. Prevenzione significa anche risparmio. La chiave è il rapporto con il territorio: occorre svilupparlo prima possibile e nel minor tempo possibile.
Simone
Sono un infermiere ospedaliero da 30 anni, da un anno in distacco sindacale. L’emergenza Covid l’ho vissuta dall’esterno, con qualche senso di colpa, perché non ero sul campo. Ma di lì a poco, quando è iniziata l’emergenza, mi sono reso conto che potevo aiutare i miei colleghi anche dall’altra parte. Suonano ancora nella mia mente le telefonate di richiesta d’aiuto che arrivavano dagli ospedali veronesi da infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici di radiologia e di laboratorio che erano in grande difficoltà, perché stava succedendo qualcosa di eccezionale negli ospedali. Il problema principale che ci veniva segnalato era la carenza o l’inadeguatezza dei dispositivi di protezione. Le prime linee guida per l’assistenza ai pazienti Covid sottostimavano il problema, sembravano fatte in base alle scorte di magazzino e non alle reali evidenze scientifiche già a disposizione a livello internazionale. Ricordo cosa si sentiva dire inizialmente nei reparti, “non mettetevi le mascherine perché spaventate i pazienti”, questa frase mi ha risuonato in testa per giorni. E poi, a breve giro, interi reparti convertiti in aree Covid, sanitari infettati. Il 70% degli infortuni Covid è avvenuto in quest’ area, i sanitari hanno pagato un prezzo altissimo.