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Come sta il mercato del lavoro italiano e quali effetti hanno avuto tre decenni di riforme che lo hanno trasformato? Volendo semplificare questa è la domanda che si poneva la discussione promossa dalla Classe di Scienze politico-sociali della Scuola Normale Superiore cui hanno partecipato l’ex ministro del Lavoro e giuslavorista Tiziano Treu e il parlamentare europeo, già presidente dell’Inps, l’economista Pasquale Tridico, coordinati dal preside della classe Guglielmo Meardi.
“Gli obiettivi erano aumentare l’occupazione, la produttività e gli investimenti, ma non ci riusciamo da 30 anni”, ha detto Tridico nel suo intervento. “Gli investimenti pubblici, al netto del Pnrr, sono crollati del 25%, a un livello più basso degli anni ’90, mentre abbiamo lo stesso livello dei salari del 1992. La correlazione tra flessibilità, occupazione e produttività, inoltre, non è dimostrata, mentre è aumentata la precarietà”.
La preoccupazione per la congiuntura in corso è condivisa dall’ex ministro Treu che spiega le riforme anni ’90 con il consenso generalizzato per il modello di flexicurity alla scandinava ma segnala come in Italia sia mancata la parte “security” con ammortizzatori sociali inadeguati a un mercato flessibile e formazione rimasta debole.
Oltre a questa che possiamo almeno in parte definire autocritica, Treu sottolinea come “Siamo al centro di sconvolgimenti in cui interi settori anche nel lavoro qualificato sono a rischio, come sta accadendo ad esempio con le traduzioni. La sicurezza del mercato è completamente stravolta. Sono necessarie istituzioni potentissime per traghettare milioni di persone nel tempo, accompagnate da politiche industriali”.
I numeri del mercato del lavoro sono inequivoci. All’aumento degli occupati corrisponde un calo del numero di ore lavorate e del part-time involontario. Giovani e donne sono i più penalizzati: tra i lavoratori sotto i 34 anni, il 35% ha un contratto a tempo determinato, contro il 12% di quelli tra i 35 e i 49 anni, e il 7% di questi oltre i 50 anni. Salari fermi e lavoro precario del resto sono tra le cause dell’emigrazione sia dei laureati che di chi lascia l’Italia per cercare un lavoro non qualificato (ma più sicuro e meglio pagato). La Fondazione Nord Est ha calcolato che tra 2011 e 2023 550mila giovani italiani (tra i 18 e i 34 anni) hanno lasciato l’Italia, tra questi i laureati sono il 43%.
La discussione è stata di particolare attualità anche in vista dei referendum dell’8 e 9 giugno. “Avere un referendum abrogativo darebbe al legislatore l’obbligo di mettere mano al Jobs Act. Non ce l’hanno fatta il primo e il secondo governo Conte. Per questo chiamare il legislatore a ricomporre un ordine necessario sarebbe essenziale”, ha spiegato Tridico. Diverso il parere sull’appuntamento referendario dell’ex ministro che teme un effetto boomerang: “I referendum possono servire come strumenti per porre al centro del dibattito politico la questione lavoro, con un grande punto di domanda: se non raggiungeranno il quorum, mi chiedo se saranno davvero utili”.