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Assemblee nei luoghi di lavoro, incontri, discussioni. Alla fine di questo percorso il bilancio che traccia Fabrizio Solari, segretario generale della Slc Cgil, desta preoccupazione e nuove sfide al sindacato. Un tratto accomuna i lavoratori delle Tlc a quelli della comunicazione e dello spettacolo: la grande preoccupazione per il futuro. La piazza del 7 ottobre è anche un modo per ridare fiducia e sentirsi un po’ meno soli.
Molte le assemblee in vista dalla manifestazione del 7 ottobre, con i lavoratori e le lavoratrici dei tuoi settori alle quali hai partecipato. Ci fai un bilancio?
Innanzitutto, le assemblee sono state un'occasione per discutere anche dei problemi dei singoli posti di lavoro. Due i tratti che unificano tutti i settori. Primo, una vera e propria arrabbiatura molto molto diffusa. Il secondo è una grande preoccupazione per il futuro. Da questo punto di vista il 7 ha anche una funzione che va oltre la l'espressione della protesta, nel senso che a Piazza San Giovanni si ritroverà insieme il popolo dei lavoratori e delle lavoratrici, avrà così modo di condividere preoccupazioni e paure, si sentirà meno solo.
Tra i tuoi settori c'è molta precarietà e lavoro povero, penso per esempio ai call center, il cui contrasto è - appunto - al centro della piattaforma della manifestazione. Cosa bisogna fare secondo te?
Nei nostri settori i contratti sono tutti sopra la soglia di salario minimo di cui si parla. Il problema che abbiamo, soprattutto nei call center, è il part-time involontario. Ci sono lavoratori poveri, perché è largamente utilizzato il part-time, quindi i lavoratori e le lavoratrici percepiscono stipendi dimezzati. Il problema non è tanto della struttura contrattuale, quanto delle scelte che il settore ha fatto. Le scelte da fare rispetto a come intervenire riguardano la filosofia del settore. Se non si immagina i call center come un corredo indispensabile alla vendita di un bene o di un servizio, e quindi come tale un investimento, ma lo si considera solo costo aggiuntivo, è chiaro che il prezzo diventa fondamentale, la qualità – anche quella della vita dei dipendenti - molto meno. Quindi c'è proprio un problema di approccio industriale del settore.
E poi c'è il settore delle telecomunicazioni che sta vivendo una ristrutturazione. Ristrutturazione che corrisponde a perdita di posti di lavoro. Penso a Tim ma non solo...
Qui abbiamo due fenomeni che si concentrano e stanno determinando fortissime tensioni occupazionali. Il primo fenomeno è quello di un mercato, quello delle Tlc in Italia, che è altamente inefficiente, cioè un mercato che negli ultimi dieci anni ha moltiplicato per dieci la domanda e ha abbattuto di oltre il 30% il fatturato. Un controsenso, che anche in questo caso evidenzia un problema di politica industriale: la politica dell'autorithy, le scelte fatte a livello europeo, i troppi gestori. Insomma, esiste un problema di regolazione del mercato. Il mercato oggi non solo sta mettendo in discussione posti di lavoro, ma addirittura sta mettendo in discussione la capacità delle imprese di tenere il passo degli investimenti. Tutto questo si traduce anche con un ritardo dell'Italia sulla via della digitalizzazione. Il secondo elemento, ovviamente, è l'impatto delle nuove tecnologie, a partire dall'intelligenza artificiale, che obiettivamente sostituisce una parte del lavoro svolto dagli uomini e dalle donne.
Secondo te che relazione c'è, se c'è, tra innovazione digitale e i diritti di cittadinanza definiti dalla Costituzione?
C'è un impatto indiretto. La digitalizzazione ha un impatto orizzontale su tutti gli aspetti della vita, dall'occupabilità, all'istruzione e alla sanità o all’esigibilità dei servizi legati alla cittadinanza visto che ormai sono online. Funzionano, non funzionano, si risiede in un’area coperta dalla rete veloce in fibra oppure con il doppino di rame. E non siamo nemmeno tutti uguali nella capacità di utilizzo del digitale. Allora, anche in questo caso, se lo sviluppo, la diffusione e la regolazione di queste tecnologie viene lasciata solo al mercato inevitabilmente si produrranno nuove diseguaglianze e probabilmente si accentueranno quelle vecchie.
Autonomia differenziata e presidenzialismo, perché no?
Perché il dramma dei nostri tempi è l'aumento delle diseguaglianze e approvare la cosiddetta autonomia differenziata significa, in buona sostanza, rendere normale e permanente le differenze di condizioni che oggi già esistono. Anziché agire come bisognerebbe, e come stiamo rivendicando, per colmare i divari se ne prenderebbe atto e si costruirebbe una struttura istituzionale, che assume e rende normale e inevitabile che ci siano queste differenze e queste distanze. Per quanto riguarda il presidenzialismo, aggiungo una considerazione: siamo in Paese nel quale va a votare circa il 50% degli aventi diritto e in più con leggi ispirate al criterio maggioritario. Questo significa che già oggi si è in una situazione nella quale una assoluta minoranza degli elettori può determinare una maggioranza assoluta nel Parlamento. Già questo provoca danni, immaginiamo cosa potrebbe succedere cancellando di fatto la centralità del Parlamento, assegnando al presidente un concentrato di poteri. Non esiste più la funzione di regolazione dei partiti, non c’è più la capacità di mediare e ci affidiamo ancora una volta, dopo qualche decennio, all'uomo o alla donna solo al comando? Sarebbe un errore drammatico.
E infine, qual è, secondo te, la via maestra che il sindacato deve seguire?
La via maestra, così come indica anche la manifestazione del 7 è importante, ha il suo riferimento nella Costituzione. Per quanto riguarda la specificità sindacale, la via maestra da seguire credo sia provare, attraverso la regolazione della rappresentanza, cioè attraverso la misurazione democratica del peso delle organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali, l’autoregolazione del mondo del lavoro. Credo che bisognerebbe avere un approccio nel quale il mercato del lavoro, la formazione, gli orari, l'organizzazione del lavoro, i salari, non vengano definiti di volta in volta, con qualche incursione legislativa. Faccio riferimento, per capirci, all'abolizione dell'articolo 18, o all’articolo 8 di Sacconi, per affermare che bisognerebbe evitare che la politica senza un intervento organico, di volta in volta a seconda delle convenienze del momento, possa fare incursioni nel mondo del lavoro, sottraendo di fatto alle parti sociali la potestà di decidere. Ecco, Io credo che il sindacato debba rivendicare di essere misurato, e quindi in qualche modo accettare di sottostare a un regime di democrazia. Una volta assodato questo, il sindacato dovrebbe, insieme alle proprie controparti, regolare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Sarebbe una soluzione saggia per tutti, sottraendo a una politica che non ha più radici ideologiche, e ha – invece - tempi di sopravvivenza brevissimi, tutte le partite che riguardano la tutela del lavoro.