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La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai, molti dei quali giovanissimi, muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, scoppiato in maniera involontaria, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia, avvenuta al termine di una lunga agonia.
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza, dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo. E mostreranno la disorganizzazione del cantiere, di proprietà della Mecnavi Srl, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.
“Lo guardiamo da vicino - scriveva l’inviato de l’Unità Jenner Meletti il giorno successivo - questo ragazzo con la faccia nera di catrame. Si chiamava Paolo Seconi, aveva 23 anni. Basta osservare i suoi vestiti, per capire quali tremendi lavori deve accettare chi per anni ha cercato un lavoro ‘normale’ e non lo ha trovato”.
A distanza di un mese Antonio Pizzinato, allora segretario generale Cgil, così commemorava le vittime: “Dopo i giorni dell’indignazione e dello sgomento, mentre riaffermiamo tutta la nostra solidarietà alle famiglie delle vittime di Ravenna, dobbiamo oggi affrontare con raziocinio e con coraggio i problemi che derivano da quella tragedia per i lavoratori, per il movimento sindacale, per cambiare questa società così ingiusta che al bisogno del lavoro spesso risponde imponendo condizioni che non rispettano la vita stessa dell’uomo”.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no” aveva detto il giorno precedente il settantacinquenne arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987.
Un convegno aperto da un’ampia e puntuale relazione di Alfiero Grandi, segretario generale Cgil Emilia Romagna. “Questo di Ravenna - diceva - non è stato un incidente sul lavoro, ma la conseguenza tragica per 13 lavoratori dell’assenza del rispetto delle più elementari norme di tutela e sicurezza e dei più elementari diritti sindacali”.
“Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro - scriveva qualche anno fa Angelo Ferracuti proprio commemorando la tragedia della Mecnavi - La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita”.
Parole sulle quali riflettere, oggi come non mai. Nel 2021 più di 3 persone sono morte ogni giorno nell’esercizio della propria attività lavorativa. Figli, figlie, mamme, papà, sorelle, fratelli che non sono tornati a casa e che a casa non torneranno mai più. Persone sacrificate sull’altare del profitto. Vite che si sono spente nell’indifferenza di tanti, di troppi. Dietro ogni numero c’è un nome, sempre.
“Si noti - tuonava dalle colonne di Lavoro Giuseppe Di Vittorio già nel 1950 - che tutti questi lavoratori sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata (…). I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita”. Parole che continuiamo a ripetere nel bianco e nero di un continuo presente che sembra non finire mai. Parole che continueremo a dire. Perché di lavoro si deve vive, non può si morire. Mai.