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Attendersi un calo rilevante degli occupati, a fronte dei provvedimenti prolungati di chiusura, non è un atto di previsione – è una certezza. E i dati dell’Osservatorio Inps sulla precarietà del primo trimestre 2020 non smentiscono: abbiamo avuto un decremento importante (-167 mila nel trimestre). Il commento potrebbe finire qui. Invece, qualche numero in più suggerisce riflessioni forse utili adesso e nei prossimi mesi, quando si dovrà ragionare su come uscire dall’emergenza.
A marzo è successo quello che sappiamo (e che troveremo sicuramente fino ai dati di maggio, quando li avremo), ma non è del tutto banale notare che anche i primi mesi del 2020, quindi prima della chiusura generalizzata, non erano stati brillantissimi: rispetto ai mesi corrispondenti del 2019 la variazione netta dei rapporti di lavoro (cioè il saldo fra assunzioni, trasformazioni e cessazioni) mostrava un significativo rallentamento nella dinamica occupazionale, specie nel mese di febbraio, non solo – come pure si disse – per effetto dell’entrata a regime delle norme più restrittive in materia di rapporti a termine.
Questo ci fa sospettare che anche prima dell’esplodere dell’epidemia non tutto fosse a posto. Forse è bene averlo a mente rispetto a chi chiede di “tornare a prima”. In effetti, l’Italia cresceva meno di tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea, e non può essere colpa delle misure prese dopo (promemoria per il presidente Bonomi), ma probabilmente delle tare (e delle scelte) che ci portiamo appresso da qualche anno.
Se si guarda alla composizione dei rapporti di lavoro e alla loro dinamica, ci si accorge che il grande peso della catastrofe occupazionale è stato sopportato da chi aveva rapporti temporanei: a termine (-109 mila di variazione netta nel trimestre, solo a marzo -93 mila), in somministrazione (-40 mila), stagionale (- 36 mila), intermittente (-28 mila). A fronte di ciò, nel trimestre i contratti a tempo indeterminato segnano +23 mila, e il blocco dei licenziamenti riguarda solo loro, per ovvie ragioni (i contratti temporanei basta non rinnovarli alla scadenza).
L’unico rapporto di lavoro che segna un incremento straordinario (+250 per cento) è il “Libretto famiglia”, effetto certo della disposizione sull’acquisto di servizi di baby sitting a fronte delle chiusure per pandemia.
Quindi abbiamo, e avremo nei prossimi mesi, un numero rilevante di persone che hanno perso un lavoro precario per effetto della pandemia, che finiranno presto i benefici una tantum disposti dal governo (compreso il Reddito di emergenza) e che si troveranno di fronte a un sistema economico ancora nelle prime fasi della ripartenza, dove cesserà l’attuale blocco dei licenziamenti per i dipendenti a tempo indeterminato: davvero una “tempesta perfetta” per l’occupazione e la tenuta sociale del Paese.
Per questo, oltre alla sacrosanta battaglia per un ruolo attivo dello Stato per investimenti e riorientamento ecologico del sistema economico, con utilizzo a tal fine delle risorse comunitarie in arrivo, mi pare si debbano affrontare due questioni: le regole dei rapporti temporanei e un sistema di ammortizzatori universali.
Sul primo punto si è già in presenza di una deroga all’obbligo di esplicitare una causale per rinnovare o prorogare un contratto a termine dopo 12 mesi: la deroga scade ad agosto e già si alza il coro di chi vorrebbe la deroga trasformata in cancellazione dell’obbligo. Penso si debba evitare di buttare il principio – corretto – dell’obbligo di causale con la necessità di affrontare l’emergenza; penso, piuttosto, si debba condizionare l’eventuale prolungamento della deroga a un esplicito impegno da chiedere all’impresa di giustificare per iscritto l’eventuale mancata trasformazione del contratto a termine (rinnovato o prorogato) in un rapporto a tempo indeterminato.
Così si farebbe fronte alla plausibile giustificazione che ora le imprese non saprebbero vedere oltre l’emergenza, con il vincolo però che nel tempo (cioè al termine di rapporti temporanei ritenuti ora necessari) questo invece sarebbe ben possibile, quindi anche suscettibile di scrutinio vertenziale in caso di mancata trasformazione. Che questo possa essere anche incentivato dalla finanza pubblica sarebbe solo giusto. Del resto, che l’obbligo di causale solo in caso di proroga o rinnovo dopo 12 mesi fosse il principale limite del cosiddetto “decreto dignità”, nonché foriero di una possibile girandola di rapporti a breve durata, fu la critica della Cgil a quel provvedimento. C’è modo di non disperdere quella critica e, al contempo, rispondere all’urgenza dell’attualità, predisponendo addirittura la normativa a future positive evoluzioni.
L’altro tema è la coerente conclusione dell’affanno con cui si è dovuto procedere per proteggere fasce di popolazione lavorativa che la follia legislativa degli ultimi venti anni ha frantumato normativamente, moltiplicando tipologie e diversificando diritti sempre più spesso al ribasso, addirittura negandone la prospettiva (emblematico il caso dei collaboratori sportivi che solo ora si scopre privi di ogni copertura contributiva). Dunque, è il tempo di avere per tutti, prescindendo dalle specificità del rapporto di lavoro, una tutela doppia: sia nel caso di riduzione dell’attività (crisi e/o ristrutturazione), sia nel caso di risoluzione del rapporto.
Con strumenti unici, eventualmente modulabili, ma unici per requisiti d’accesso, durata, importi e contribuzione di finanziamento. E a fronte della minaccia di una valanga di licenziamenti, è il caso di rivalutare i contratti di solidarietà, sciolti dall’identificazione normativa ed economica con la cassa Integrazione, e resi invece strumento di salvaguardia dell’occupazione e del salario, collegati a una grande operazione di formazione e aggiornamento delle competenze dei lavoratori. Non mi soffermo sui dettagli, ma ciò che conta è avere questa prospettiva, cui traguardare anche le modifiche che nella transizione a quel modello si dovranno apportare a quello attuale.
Claudio Treves è presidente del Comitato di garanzia nazionale della Cgil