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Poco dopo l’una di notte del 6 dicembre 2007, sulla linea 5 dell’acciaieria Thyssen di Torino, sette operai vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco. Alle 4 del mattino muore il primo operaio, Antonio Schiavone. Nei giorni che seguiranno, dal 7 al 30 dicembre, moriranno altre sei persone: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Sopravviverà un unico testimone oculare, Antonio Boccuzzi.
I sindacati denunceranno immediatamente l’inadeguatezza delle misure di sicurezza dello stabilimento: estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato, turni di lavoro infiniti e massacranti. Le indagini si chiuderanno in un tempo relativamente breve, la procura chiederà il rinvio a giudizio per sei dirigenti dell’azienda tedesca e il giudice dell’udienza preliminare accoglierà le tesi dell’accusa: il presunto reato è omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso.
L’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, accusato di omicidio volontario, sarà condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza, Giuseppe Salerno, responsabile dello stabilimento di Torino, Gerald Priegnitz e Marco Pucci, membri del comitato esecutivo dell’azienda, saranno condannati a 13 anni e 6 mesi per omicidio e incendio colposi e omissione delle cautele antinfortunistiche. Daniele Moroni, membro del comitato esecutivo dell’azienda, a 10 anni e 10 mesi (il 28 febbraio 2013 la Corte d’assise d’appello modificherà il giudizio di primo grado, non riconoscendo l’omicidio volontario, ma l’omicidio colposo, riducendo le pene ai manager dell’azienda: 10 anni a Herald Espenhahn, sette anni per Gerald Priegnitz e Marco Pucci, otto anni per Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, nove per Daniele Moroni. La Corte d’Appello di Torino ha così ridefinito le pene il 29 maggio 2015: nove anni e otto mesi a Espenhahn, sette anni e sei mesi a Moroni, sette anni e due mesi a Salerno, sei anni e otto mesi a Cafueri, sei anni e tre mesi a Pucci e Priegnitz).
“Ho visto l’inferno”, raccontava Giovanni Pignalosa, delegato della Fiom, uno degli operai rimasti intossicati dal fumo dell’incendio. “Antonio era avvolto nelle fiamme e gridava: Aiutatemi, muoio. Ma era impossibile avvicinarsi”. “Questo drammatico evento - commentava a caldo l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - coinvolge ancora una volta la responsabilità di tutti, poteri pubblici e forze sociali, ad assumere il necessario impegno per estirpare l’inaccettabile piaga delle morti e degli incidenti sul lavoro”. “Il governo ha fatto molto - sarà la triste constatazione dell’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano - ma le norme, i controlli e le sanzioni da soli non bastano”.
“Sono passati cinque anni dal gravissimo incidente che causò la morte di sette operai dello stabilimento della ThyssenKrupp di Torino - diceva nel 2013 l’allora segretaria generale della Cgil Susanna Camusso - Il loro ricordo, le condizioni di lavoro e lo stato di insicurezza in cui persero la vita devono essere un severo monito per tutti. In questo siamo confortati dall’operato della magistratura che ha severamente e coraggiosamente sanzionato i comportamenti dell’azienda con una storica sentenza. Li ricordiamo ancor più oggi dopo l’incidente costato la vita a un lavoratore a Taranto e ai gravi problemi ambientali e di salute che quello stabilimento dell’Ilva ha prodotto e produce nella città pugliese. Oggi più che mai dobbiamo essere consapevoli che nessuna ragione economica può mettere in secondo piano la sicurezza, l’ambiente e la vita delle lavoratrici e dei lavoratori”.
“Il primo tema - diceva lo scorso anno il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - è una cultura in cui la sicurezza sul lavoro non sia più considerata un costo ma un investimento. Un punto fondamentale, oltre a ragionare sui carichi di lavoro e sulla necessità di pause, è la formazione e il rispetto delle regole. C’è un problema di responsabilità e di cultura dell’impresa. I sistemi di lavoro, fin dalla progettazione, devono contenere gli aspetti che riguardano la prevenzione e la salute. Si continua a morire sul lavoro come trenta, quaranta anni fa. La formazione oltre ai lavoratori andrebbe fatta anche agli imprenditori e sugli appalti bisognerebbe inserire la patente a punti. Le imprese dove ci sono stati troppi infortuni devono essere segnalate”.
Parole attuali sulle quali, mai come oggi, ci siamo trovati e ci troviamo costretti a riflettere. Tra gennaio e luglio 2020 le denunce di infortunio sul lavoro sono state 288.873. Le morti 716, +19,5% rispetto al 2019. Nei primi sette mesi del 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono calati gli infortuni mortali in itinere (cioè durante il percorso dal lavoro), che sono scesi da 167 a 113, con un -32,3%, ma sono aumentati da 432 a 603, un aumento del 39,6%, quelli in occasione del lavoro. Un elenco infinito, pauroso, di persone, non di numeri. Un elenco di mamme, papà, fratelli, sorelle, zie, nonni, mogli, mariti. Un elenco di storie, di famiglie, di vuoti lasciati, di solitudini.
“Le chiamano morti bianche - ha scritto Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - come il lenzuolo che copre le coscienze dei colpevoli. Le chiamano morti bianche, ma sono tragedie inaccettabili per una paese che si definisce civile. Le chiamano morti bianche, ma in realtà sono nere, non solo perché ogni morte è nera ma perché spesso, quasi sempre, le vittime non risultano nemmeno nei libri paga dei loro padroni: padroni della loro vita. E della loro morte. Le chiamano morti bianche, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano morti bianche, pochi ne parlano, ma sono tragedie sottostimate nei dati ufficiali. Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai”.
Sono morti rosse, come il sangue versato, morti nere come la nostra rabbia, la nostra - di tutti! - vergogna.