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C’erano una volta i call center. Oggi, i giovanissimi rider che sfrecciano in bicicletta per portarci del cibo caldo a casa, non se li ricordano neanche più. Forse li hanno visti in un film negli archivi di Netflix o ascoltati in una canzone di Calcutta (“mi richiamerai da un call center”, grida lui alla ragazza che l’ha mollato e non vedrà mai più). Quel vecchio simbolo della precarietà è praticamente in via d’estinzione, delocalizzato in blocco in Albania e in Romania, dove si parla bene la nostra lingua e il lavoro costa meno che da noi. In questa gara al ribasso dei diritti, nel fantastico mondo della gig economy che ci ostiniamo a pensare “avanzato”, i ragazzi e le ragazze dei call center si stanno trasformando nei rider. Ma quando siamo costretti a usare parole anglosassoni per indicare ciò che sta accadendo, bisogna stare attenti alle fregature, esattamente come all’inizio degli anni Duemila con i call center (chi li ha mai definiti “centri di chiamate”?), o come è successo con la riforma del lavoro quando l’hanno chiamata Jobs Act. Proviamo allora qui a fare un po’ di chiarezza su cosa significhi fare il rider in Italia partendo da una situazione che per il sindacato ha un ostacolo in più rispetto al recente passato. Se infatti i call center sono grandi centri di aggregazione – e perciò è un po’ più facile trovare e difendere quei lavoratori – i ciclofattorini vivono un’inedita solitudine: non hanno un capo con cui parlare, né un collega per confrontarsi, nel perenne timore di denunciare le situazioni di sfruttamento perché metterli alla porta è facilissimo, non avendo un contratto da dipendenti. Sta tutta qui la difficoltà nell’intercettarli.
La storia di Antonio, il più precario di tutti
Eppure c’è chi non si dà per vinto come Antonio Prisco, di Napoli. Lui è un rider, una partita Iva, ma non si fa mancare nulla: d’estate lavora pure per un’agenzia di turismo in Grecia e da qualche tempo collabora con il Nidil Cgil come delegato di base. “La mia situazione è una follia, lo so, praticamente sono l’emblema del precariato”, ci scherza su. Poi si fa serio e spiega: “Come rider devo lottare con un centinaio di persone per accaparrarmi la consegna e se la sbaglio ho 3 euro di penale. Noi non conosciamo il nostro ‘padrone’, in strada vedi un telefono e basta, sei da solo. Per questo, insieme al Nidil, stiamo aprendo un locale in via Pica dove poterci incontrare, una specie di Camera del lavoro 2.0. Sarà un luogo dove trovare ristoro, gonfiare le ruote, prendersi un momento per fare due chiacchiere tra una corsa e l’altra; praticamente torniamo alle necessità del secolo scorso, come fece Di Vittorio nei campi pugliesi quando mise insieme i contadini rendendoli più forti davanti ai latifondisti”.
«Devo lottare con un centinaio di persone per accaparrarmi la consegna e se la sbaglio ho 3 euro di penale»
Antonio nel frattempo si sta guardando in giro. Qualche mese fa è andato a Barcellona per incontrare i ragazzi di Riders por Derechos, un’associazione appena nata con un grande obiettivo: “Stanno provando a riappropriarsi dell’algoritmo – spiega con grande entusiasmo –, hanno fatto anche un crowdfunding per creare una piattaforma e una nuova app autogestita. Hanno in mente una cooperativa in cui non ci sarà il capitale estero e non ti sentirai uno schiavo 4.0 costretto a correre da una parte all’altra della città”. Corsa in effetti è la parola giusta, perché per accaparrarsi qualche spicciolo in più si rischia grosso in mezzo alla strada. Quest’anno ci sono state due vittime accertate, una a Bari e l’altra a Pisa, e a Milano un ragazzo ha perso una gamba. Un aspetto davvero sottovalutato, quello della sicurezza, che ci porta alla seconda tappa di questo viaggio, Catania.
Il Sud che resiste
“Qualche mese fa è venuto da noi un ragazzo di trent’anni che aveva avuto un incidente stradale mentre faceva le consegne. Un infortunio molto grave che lo ha costretto a spese mediche di circa 7 mila euro, davvero una bella cifra per chi come lui guadagna appena 25-30 euro per una giornata di consegne dalle sette di sera fino alle due di notte, se non piove”. A raccontarci questa storia è Emanuel Sammartino, del Nidil Cgil di Catania. Da lui scopriamo una peculiarità tutta del Sud: qui le grandi app fanno fatica a entrare nel mercato delle consegne. È una questione culturale, prima ancora che economica. In pratica funziona così: i datori di lavoro hanno un rapporto diretto con il porta-pizza e poi, in base alla piattaforma da cui arriva la prenotazione, gli cambiano lo zainetto.
A Catania le app non sfondano: è una questione culturale, ancor prima che economica
“Qui quando chiami un ristorante per fare l’ordine, te lo dicono direttamente di non pagare tramite l’app, sennò costa di più a tutti e due”. Per questo il sindacato sta provando a parlare direttamente con i proprietari dei ristoranti: “Stiamo facendo una campagna informativa rivolta a loro per sottolineare che la figura del rider già esiste nel contratto della logistica – spiega Emanuel – e per convincerli ad attivare quel tipo di assunzione; a quanto ci risulta, molti di loro non avrebbero problemi a farlo, il fatto è che non sanno nemmeno che esiste. Perciò stiamo pensando di coinvolgere anche le associazioni dei consulenti e dei commercialisti, i quali vedono il contratto in somministrazione come una specie di ‘furto’ del loro lavoro e quindi tendono a non spingere i loro clienti in questa direzione”.
I duemila “licenziamenti” di Foodora
La vertenza dei rider è ormai diventata un simbolo della lotta contro lo sfruttamento digitale. Non a caso uno dei primi atti del nuovo governo è stato quello di convocare le associazioni dei ciclofattorini, e poi i sindacati, aprendo un tavolo al ministero del Lavoro. La richiesta base dei rider è un compenso minimo agganciato ai contratti nazionali che abbia una base oraria e non solo a cottimo. Ma sinora quel tavolo non ha portato ad alcun risultato concreto, a riprova di quanto la realtà sia ben più complicata degli annunci. L’ennesima dimostrazione arriva dal caso Glovo che, nell'inglobare una sua diretta concorrente, Foodora, ha deciso di lasciare a casa di punto in bianco circa duemila ciclofattorini. Se ne sta occupando attivamente il Nidil Cgil di Firenze, come spiega Ilaria Lani: “Qui abbiamo circa duecento persone colpite da questa decisione che, per noi, è un licenziamento vero e proprio, anche se sulla carta questi lavoratori sarebbero autonomi e non subordinati. Ma è evidente che non è così”.
«L'acquisizione da parte di Glovo ha riguardato solo i dati. Le gambe si sostituiscono senza problemi»
Il Nidil del capoluogo toscano è attivo già da tempo su questo fronte: “Abbiamo cominciato mesi fa, andando nei luoghi del centro storico dove si incontrano i rider tipo piazza della Repubblica, e siamo riusciti a metterli in rete, in contatto fra di loro”. Poi è scoppiato il caso Foodora, quando è venuto fuori che l’acquisizione da parte di Glovo non prevedeva alcuna tutela per le persone. “Praticamente – osserva la sindacalista – le due aziende hanno concordato solo la vendita dei dati. Le gambe si sostituiscono senza problemi. E chi riuscirà a passare nella nuova azienda avrà condizioni ancora peggiori, senza più un orario fisso per le consegne e con molti dubbi sulle coperture assicurative. Tra l’altro – aggiunge – nel seguire questa vertenza abbiamo scoperto che questo sta diventando l’unico lavoro per molti giovani e migranti, soprattutto, una cosa di cui non si ha percezione in giro”. A Firenze il sindacato ha messo in piedi anche con un’attività mutualistica. “Abbiamo stipulato una convenzione con una ciclofficina che impiega ex carcerati – conclude Lani –, così abbiamo messo a disposizione uno spazio gratuito per le autoriparazioni”.
Ma quanto guadagna un rider?
Una storia simile arriva da Bergamo. Ce la racconta Francesco Chiesa, giovane sindacalista anche lui di Nidil. “Quando è arrivata Deliveroo in città, a novembre dell’anno scorso, mi sono subito iscritto, ho mandato il curriculum e mi hanno chiamato. Ho partecipato al corso, mi sono fatto spiegare come funzionava e ho fatto qualche consegna, anche per vedere il contratto. Poi a giugno è partita la nostra campagna ‘Delivery your rights’. Siamo andati in giro in bici con uno zaino simile a quello di Deliveroo, durante le pause pranzo e le consegne serali, per incontrare i rider e invitarli a un evento che abbiamo fatto in collaborazione con il Comune di Bergamo”. Francesco ci spiega anche che le condizioni economiche stanno peggiorando: “Prima si guadagnavano 7 euro fissi l’ora più un euro a consegna. All’inizio erano in pochi a fare questo mestiere e si arrivava a 800-900 euro al mese. Adesso sono passati tutti a un fisso di 5 euro a consegna, completamente a cottimo. Anzi, in realtà quei 5 euro non sono nemmeno fissi, si varia dai 2 ai 7-8 euro in base alla distanza”.
Come in altre città, anche a Bergamo il sindacato ha sentito l’esigenza di mettere a disposizione un locale confortevole per i ciclofattorini, che possono usare il “Toolbox” della Cgil per fare riunioni e vedersi ogni volta che lo richiedono. “Poi – aggiunge Francesco – sempre in collaborazione con il Comune abbiamo ottenuto che i rider possano rifocillarsi in un bar in centro con wi-fi gratuito, per trovare ristoro, ricaricare il cellulare e ripararsi dalla pioggia. È la prima cosa che ci hanno chiesto quando siamo riusciti a entrare in contatto con loro”. Resta però l’enorme problema nell’intercettarli: “Il turn-over – conclude Francesco – è altissimo, ogni settimana cambiano quasi tutti, tanto che a settembre siamo ripartiti in bici per parlare con i nuovi. Perciò abbiamo creato un gruppo whatsapp per restare in contatto. Qui ci arrivano un sacco di domande, c’è chi ci chiede se deve aprire la partita Iva, chi se deve versare i contributi”. Eccoli, allora, i giovani sindacalisti all’opera tra consulenze fiscali, chat, “infiltrazioni” nelle app. Una lunga strada da percorrere, ma in giro per l’Italia in molti hanno iniziato a farlo. Parte anche da queste piccole idee la sfida organizzativa per il sindacato che deve inventarsi nuove forme per aggregare i lavoratori.