Il governo è sempre più lanciato sulla strada delle privatizzazioni. Un’idea vecchia, che ha già fallito in passato, ma che la maggioranza torna a riesumare “per fare cassa”. Da Poste Italiane a RaiWay, da Eni ai porti ealle Ferrovie dello Stato, si susseguono gli annunci dell’ingresso dei privati negli asset nazionali più importanti. Un’operazione che penalizza lavoratori e cittadini, come ben spiega il segretario confederale Cgil Pino Gesmundo.

La Cgil avvia oggi la campagna sulle privatizzazioni annunciate dal governo nelle scorse settimane. In termini generali, perché la Confederazione è così contraria?

Sono soluzioni vecchie, che il nostro Paese ha già sperimentato e che invece di migliorare l’apparato industriale italiano ampliando la competizione, hanno distrutto campioni nazionali pubblici e le grandi aziende private che si erano sviluppate a sostegno del business principale. Possiamo dire, senza tema di smentite, è rappresentano la resa del governo davanti ai poteri forti della finanza.

Un esempio di campione nazionale pubblico distrutto?

Iniziamo da Telecom, quinta azienda del mondo, oggi relegata ai margini del settore e indebitata pesantemente. Attorno a Telecom erano cresciute grandi imprese private che sviluppavano e manutenevano la rete (Sirti, Sielte e altre), oggi tutte ridotte nella dimensione e prive di prospettive. È il caso di Alitalia, ridotta a un decimo della compagnia di bandiera tedesca nonostante le dimensioni dei due Paesi siano simili. E con Alitalia sono sparite tutte le aziende di qualità che facevano manutenzione dei motori e degli aerei, e anche le aziende che gestivano i servizi di terra sono peggiorate.

C’è anche l’esempio di Autostrade…

Il nostro Paese aveva la più importante e qualificata rete autostradale d’Europa: oggi si ritrova con una rete degradata e con servizi molto inferiori in termini di qualità. Anche in questo caso molte aziende grandi e strutturate che lavoravano per Autostrade non esistono più o sono pesantemente in crisi. L’unica cosa che ha funzionato in questi casi è stata la distribuzione di dividendi enormi per gli azionisti che si sono arricchiti tagliando servizi e investimenti. In altre parole, si sono tolte risorse che facevano lavorare aziende sul territorio per intascare profitti immeritati e non dipendenti da una reale capacità di competere sui mercati. Ripercorrere quelle scelte porta alla mente una vecchia citazione latina attribuita a Sant’Agostino: “Errare è umano, ma perseverare è diabolico”.

Pino Gesmundo, segretario confederale Cgil (Simona Caleo)

Entriamo nel merito dei singoli asset, partendo da Poste Italiane. Il governo ha prima ipotizzato la vendita di una parte consistente di quote azionarie, ma nei giorni scorsi il ministro Giorgetti ha ventilato addirittura una cessione totale. Quali sarebbero i rischi per cittadini e lavoratori?

Nonostante quello che il governo continua ad asserire sul fatto che il controllo resterà nelle mani dello Stato, cedere una quota significativa delle azioni di Poste Italiane produrrà una situazione per cui i vertici dovranno soddisfare le attese degli azionisti privati in merito ai dividendi. Chi investe, infatti, lo farà attendendo un rendimento dell’investimento superiore a quello di altri settori. Per realizzare queste attese il nuovo management farà esattamente quello che è stato fatto nelle aziende privatizzate di cui abbiamo parlato prima: tagliare gli investimenti, chiudere gli sportelli sul territorio (le banche lo hanno già fatto desertificando la loro presenza), spingere sull’automazione del servizio mettendo in difficoltà la clientela, in larga parte composta da persone anziane.

Ci potrebbero essere ulteriori conseguenze?

Certamente. Da un lato, una riduzione drastica del personale; dall’altro, il ridimensionamento di tutte le aziende che per Poste Italiane operano. Nel medio-lungo periodo sarà inoltre ridimensionata la capacità di Poste di attrarre il risparmio privato, con una decurtazione di quelle entrate che oggi rappresentano il flusso economico di Cassa depositi e prestiti, producendo un ridimensionamento dell’intero sistema. Nel frattempo, gli azionisti staccheranno cedole di dividendi straordinarie. Quest’anno la trimestrale ha fissato utili per oltre 500 milioni di euro. Così, per aumentare la ricchezza di pochi, si toglieranno risorse sul territorio e s’indebolirà il sistema del risparmio postale.

E che fine farà Cassa depositi e prestiti?

È al centro di una manovra a tenaglia, se così possiamo dire. Poste Italiane rappresenta la maggiore leva finanziaria in capo alla stessa Cassa. Quindi il privato avrà un ruolo strategico nella gestione del risparmio privato raccolto da Poste e un condizionamento maggiore nei confronti di Cassa depositi e prestiti. Peraltro, già oggi in Cassa, che diventerebbe l’unico socio “pubblico” di Poste, sono presenti le fondazioni bancarie, diretto concorrente dell’attività di Poste. Una maggior influenza degli investitori privati su Cassa depositi e prestiti ridimensionerebbe il ruolo dello Stato nell’unica leva finanziaria che consente di fare investimenti legati alle politiche industriali necessarie a governare la transizione ambientale. E stiamo parlando di risorse che sono in gran parte formate dal risparmio degli italiani e versato a Poste. Chissà se di fronte a una “privatizzazione” gli italiani continueranno a riporre fiducia nell’azienda che, come dice Meloni, “rappresenta lo Stato sul territorio”.

La seconda importante privatizzazione è quella di Eni. La motivazione ufficiale è quella del “fare cassa” per abbassare il debito pubblico. Ma è un’operazione conveniente? Qualora non lo fosse, perché farla?

Che l’operazione non sia conveniente dal punto di vista economico lo ha dovuto ammettere anche il ministro Giorgetti in audizione al Parlamento. Infatti, si è dovuto arrampicare sugli specchi teorizzando (forse sarebbe meglio dire: favoleggiando) che il vantaggio ci sarà per il conseguente aumento di valore dell’azienda a seguito dell’aumento della presenza dei privati. Come questo venga calcolato il ministro ovviamente non lo dice.

Un esempio per capire?

Presto fatto. Venderemo il 4,7% di azioni di Eni: la vendita produrrà un incasso di circa 2 miliardi di euro che per legge dovranno essere utilizzati per la riduzione del debito pubblico. Ciò comporterà una riduzione del costo del debito pubblico di circa 94 milioni di euro (questo è il solo risparmio per lo Stato) a fronte di 147 milioni di euro incassati dallo Stato nel 2023 per i dividendi di Eni sul 4,7% di azioni possedute dal ministero delle Finanze che, per effetto della vendita, verrà meno. Quindi la vendita produrrà un effetto negativo per i conti dello Stato, che vedrà ridursi le entrate in maniera maggiore della riduzione della spesa per gli interessi sul debito. Inizialmente la vendita riguarderà il 2,8% delle azioni per un importo di 1,4 miliardi di euro. Inoltre, questo progetto indebolirà ancora di più il ruolo di Eni sul processo di transizione ambientale proprio nel momento in cui l’Italia dovrebbe concentrare tutti i suoi sforzi per recuperare i ritardi accumulati e che rischiano di produrre pesanti danni per l’economia del nostro Paese.

Ma allora, perché il governo lo fa?

Su questo possiamo esporre solo una teoria, ma che appare l’unica possibile giustificazione per questa scellerata decisione. L’ipotesi più probabile va ricercata nell’intensa attività svolta dal ministro Giorgetti nei confronti dei mercati finanziari che ha portato la presidente del Consiglio a Londra, nell’aprile 2023, a un incontro tra industria e finanza. Le privatizzazioni annunciate sembrano più un segnale, mandato o condiviso, ai mercati finanziari per convincerli a sostenere il debito pubblico italiano, che rappresenta la vera priorità del governo italiano. A quell’incontro con i poteri forti finanziari (qualcuno nel passato urlerebbe a una subalternità a Soros) potrebbe esserci stato un “baratto” che ha portato il Governo a cambiare idea.

Un “baratto” per ottenere cosa?

Per ottenere un sostegno forte all’acquisto del debito pubblico italiano.Il governo, in pratica, potrebbe essersi impegnato a ridurre la propria presenza nelle aziende di Stato, accordandosi direttamente con quei soggetti che poi rappresenteranno gli acquirenti dei pacchetti azionari. Se si trattasse di una mera misura atta a reperire le risorse per ridurre il debito comporterebbe la scelta di una vendita diffusa delle azioni sul mercato, modello public company, riducendo al minimo il potere di influenza dei soggetti privati. Invece, il ministro Giorgetti ha più volte commentato che l’operazione si realizzerà quando i mercati saranno pronti, come a dire: venderemo pacchetti azionari a valori anche maggiori in quanto portatori di diritto di voto e decisionali per le aziende stesse.

Ma come capire se si sta procedendo in questa direzione?

Sarà sufficiente analizzare il piano d’impresa che le due aziende stanno predisponendo. Se in quei piani sarà prevista la societarizzazione di rami delle stesse, è evidente che la motivazione sarà da ricercarsi sugli accordi di governance raggiunti con gli investitori finanziari. In altre parole, ci sarà la spartizione del potere e degli ambiti di interesse tra lo Stato e gli investitori privati. Se questa sarà la direzione che il Paese prenderà, saremo alla presenza di un’ulteriore incongruenza del governo sovranista.

In effetti, lo slogan del governo “prima l’Italia e prima gli italiani” sembrerebbe del tutto fasullo…

Sì, sarebbe sacrificato sull’altare della finanza (il Soros che governa gli interessi del mondo e su cui le forze di maggioranza hanno ripetutamente attaccato la sinistra per averlo appoggiato). Lo scambio che si realizzerebbe a questo punto è quello di un sostegno dei poteri finanziari forti all’acquisto del debito pubblico italiano in cambio di una cessione di sovranità degli asset strategici del Paese che relegheranno l’Italia a ruolo di mero mercato europeo e non più di nazione industriale d’Europa. Se a questo aggiungiamo le voci sulla vendita di quote azionarie di Ferrovie dello Stato e dei porti il quadro è completo. Il privato entrerà nelle leve di comando degli asset strategici del Paese condizionando le scelte del governo.

Concludiamo con RaiWay. La vicenda qui sembra davvero incomprensibile: non solo s’intendono vendere le quote azionarie, ma s’ipotizza una fusione con EiTowers, controllata al 40% da Mediaset, a tutto vantaggio dell’investitore privato. Come si spiega una simile dismissione?

Questa vendita di quote ha caratteristiche diverse dalle precedenti e, se possibile, ancora peggiori. Con un unico tratto in comune: un favore ai soggetti privati che beneficeranno di queste scelte. Dopo la scelta ideologica del governo di tagliare il canone Rai, la stessa si trova nelle condizioni di dover recuperare soldi per provare a vincere la sfida dell’innovazione digitale, predisponendo un piano industriale che trasformi la Rai in una digital company per provare a rispondere all’approvazione dell’European media freedom act. Peccato che la Rai non riuscirà a rispondere alle garanzie chieste dall’Europa, rischiando così di essere esclusa dai futuri scenari delle aziende europee.

E quindi che senso ha la fusione?

È l’ennesimo regalo al privato che ha caratterizzato il duopolio televisivo italiano. Infatti, EiTowers è pesantemente indebitata (oltre 700 milioni), a differenza di RaiWay, e con la fusione i soci diluiranno il debito nella nuova società. Allo stesso tempo otterranno la garanzia delle entrate certe derivanti dal pagamento della Rai per la trasmissione del segnale. Insomma, un gran regalo a Mediaset.