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Valdagno è una piccola città vicentina. È qui che esplode la prima rivolta operaia del Sessantotto italiano nella fabbrica tessile dei Marzotto, dando il via nel nostro paese al secondo biennio rosso, qualche settimana prima del famoso maggio francese.
In una zona tutto sommato politicamente moderata gli operai scendono in sciopero contro i licenziamenti fermando il lavoro sia al turno di notte che del mattino. Nella fabbrica dal settembre precedente sono in corso trattative sul piano di ristrutturazione aziendale che approdano nel novembre a un accordo condiviso da Cisl e Uil, ma non sottoscritto dalla Cgil. Nell’anno successivo riprendono gli scioperi e ben 143 sono le ore di lotta contro l’intensificazione dei ritmi di lavoro e per il mantenimento dei livelli occupazionali.
Sono i partigiani di un tempo e i loro figli operai a protestare. Donne e uomini che il 19 aprile 1968 vengono assaliti dalla celere. Le cariche sono violentissime. Loro reagiscono e rovesciano la statua del conte. Quel gesto per molti giovani operai segna la fine della subalternità culturale alle regole del padrone. Più di 40 di loro vengono arrestati, moltissimi saranno i fermi, quattro i feriti, tutti di Valdagno e per lo più giovani di età compresa tra i 17 e i 25 anni.
“È stata - scriverà l’Unità - la rivolta di un’intera popolazione contro il feudo, contro una dominazione vessatoria, intollerabile in questo secolo”.
A Valdagno - raccontava Sergio Bologna - c’ero stato nel ’65 per alcuni giorni. Il ricordo del vecchio Marzotto che mandava i suoi capi a prelevare le ragazze dai reparti era ancor vivo. I figli, appassionati automobilisti, percorrevano il breve viale che dalla villa portava alla fabbrica come se fossero a Monza. All’uscita della fabbrica c’era una garitta con un guardione. Gli operai che mentre uscivano dovevano ben fissarlo negli occhi, perché lui sceglieva quelli che dovevano farsi perquisire con un lievissimo, quasi impercettibile segno della testa. Uomini da una parte, donne dall’altra. Non ricordo se allora le donne erano già riuscite ad ottenere almeno che a perquisirle fossero altre donne. Valdagno non aveva altro ritmo sociale, fisiologico, che non fosse quello della fabbrica. Alla sera il paese era deserto, buio e già si parlava del torrente Agno irrimediabilmente inquinato dalla Marzotto. 1965. Quando, alcuni mesi dopo, presi il posto di Umberto Segre all’Università di Trento e lì ritrovai Mauro Rostagno, che avevo già conosciuto in qualche gruppetto operaista a Milano nel ’63 e conobbi la sua compagna di allora, Marianella, Checco Zoi, Paolo Sorbi ed altri del gruppo ‘storico’ trentino e raccontai loro queste storie, quasi non ci vollero credere.
“La jacquerie operaia di Valdagno - scriverà sul Manifesto Toni Negri a 40 anni dagli avvenimenti - mandò all’aria con la statua del conte Marzotto un secolo di oppressione patriarcale, capitalistica e religiosa e spezzò le catene congiunte della pietà e dello sfruttamento, strappando i lacci che impedivano nuove forme di vita”.
Comincia, in Italia, il ’68. L’anno della primavera di Praga e dei pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos alle olimpiadi di Città del Messico, l’anno dei morti di Avola e della uccisione di Martin Luther King, l’anno dei giovani e delle occupazioni nelle Università, l’anno degli studenti e degli operai uniti nella lotta. Un anno che cambierà la storia.